Spider-man, o la macchina-cinema

Spiderman vede di più, una visione, un sentire oltreumano che è sia intenzionale sia automatico. Una macchina della visione mobilissima, che sfrutta ogni spazio della città, ridisegnandola per mezzo di nuovi percorsi. Spiderman è già una macchina-cinema, uno sguardo che va al di là dell’occhio umano, soggetto ed oggetto di visione

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Correva l’anno 1962, e usciva negli Stati Uniti il numero 15 di “Amazing Fantasy”, rivista di fumetti edita dalla Marvel Comics, casa editrice concorrente della ormai celebre DC Comics, per la quale escono tra l’altro le avventure di supereroi come Batman e Superman. Il numero contiene la prima storia di una delle saghe fumettistiche più famose e longeve del mondo: è l’inizio delle avventure di “Spiderman, L’uomo ragno” (come si chiamerà in Italia a partire dal 1970, anno i cui i fumetti dell’arrampicamuri cominceranno ad essere tradotti da noi). Come gli “X-men”, altro fumetto Marvel recentemente portato sullo schermo, anche Spidey è ora un film (ancora non visto al momento in cui scrivo), portato sullo schermo da uno dei registi più interessanti della nuova generazione hollywoodiana come Sam Raimi. Ultima delle trasposizioni cinematografiche delle vicende di Peter Parker (ci sono diversi film “live action” dedicati all’uomo ragno, uno addirittura prodotto e realizzato in Giappone), che prima ancora di essere vista, può rilanciare la memoria verso quel prodotto dell’immaginario che ne costituirà il materiale, appunto il personaggio (e l’universo dell’uomo ragno). Una sorta di gioco questo, teso però a scoprire una serie di analogie tra il fumetto e il meccanismo cinematografico, attraverso una figura, come quella di Spiderman, complessa, lacerata, caratterizzata dal doppio – come molti dei personaggi dell’universo fumettistico statunitense – e, soprattutto, straordinariamente urbana.

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Contrariamente alla Metropolis di Superman, o alla Gotham City di Batman, luoghi postmoderni di accumulo di segni, come nelle scenografie di Furst nei film di Burton, Spiderman si muove, orienta le sue azioni e il suo sguardo a New York (fino ad intervenire direttamente nei soccorsi delle vittime del Word Trade Center l’11 settembre). La città reale è attraversata dall’irreale presenza del supereroe, che ne offre una visione superumana, inconsapevolmente simile a quella delle città delle avanguardie cinematografiche (“L’uomo con la macchina da presa” di Vertov in testa). I grattacieli di Manhattan diventano luoghi di osservazione, possono essere attraversati, usati come piattaforme, come basi d’atterraggio. Spiderman vede di più, stravede attraverso occhi coperti da una maschera dalle orbite bianche (come e più di “Devil”, altro supereroe Marvel che sta per essere trasformato in film). Una visione, un sentire oltreumano che è sia intenzionale sia automatico (il senso di ragno che si attiva avvertendo Peter di un pericolo in arrivo). Una macchina della visione mobilissima, che può andare là dove nessun altro umano può, sfruttando ogni spazio della città, ridisegnandola per mezzo di nuovi percorsi. Spiderman è insomma già una macchina-cinema, uno sguardo che va al di là dell’occhio umano, soggetto ed oggetto di visione. Come macchina di visione, anche Spiderman “produce” i suoi oggetti. È infatti lo stesso Uomo ragno a produrre le sue nemesi e i suoi doppi, a creare le forme contro le quali si scontrerà. È l’essere oltre di Peter Parker a creare specularmente Goblin e Hobgoblin, da una parte (villain che altri non sono se non Harry Osborn e suo padre, amici di Peter), e Venom, Carnage, Ben Reilly dall’altra, doppi, simulacri, cloni di se stesso che rivelano a Peter la sua natura di soggetto lacerato, frammentato, sottoposto a continua e costitutiva scissione.

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L’umanesimo che ha caratterizzato la Marvel di Stan Lee (“supereroi con superproblemi” era la formula delle collane della casa editrice newyorchese), si trasforma in questo fine millennio in una esplorazione dei limiti dell’umano, in un al di là dell’umano che, non è un caso, è anche il percorso di un regista come Raimi, i cui personaggi sono sempre esplorati, analizzati a partire da un “dono” che essi possiedono e che li rende “speciali”, che li trasforma (dalla capacità di Kate Blanchett di “vedere di più” – anche lei! – in “The Gift”, al “dono” del denaro in “Soldi sporchi”, alla graduale consapevolezza della propria forza di Bruce Campbell ne la trilogia de “La casa”). Ma è ancora presto per ipotizzare legami tra un testo e l’altro, tra l’immagine complessa e multiforme di Spiderman e lo sguardo di Raimi. Rimane, prima della visione, lo stimolo a ripensare Spiderman, il luogo che occupa nell’immaginario e la sua capacità di crearlo ed interpretarlo.

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