SQ2018 – A discretion, di Cedric Venail

Venail conduce l’intervista a Nolot alternando i primi piani a silenzi eloquenti che rimandano alle infinite possibilità in cui una storia può prendere vita e svilupparsi. Un’opera teorica

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Il cinema come luogo del possibile. Tra i film in concorso per la sezione New Visions, A discretion di Cedric Venail è quello più teorico, presentando una serie di domande che rimandano al significato dello sguardo, a quella sottile parete tra fiction e documentario spesso attraversata nei due sensi, secondo il diverso punto di osservazione. Un produttore (Sharif Andoura) chiede di incontrare un noto attore (Jacques Nolot) per avere notizie di un club speciale a Parigi, in cui è possibile osservare la vita quotidiana dietro uno specchio, senza essere osservati. La gestazione di una opera filmica ha una fase pre-produttiva spesso lunga e riguarda la scelta di una tra le tante infinite storie. Prendendo spunto da Godard e dalle sue teorie sulla morte del Cinema vale la pena porsi alcuni interrogativi: Cosa può essere ancora raccontato?

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Se il gap tra la realtà e la sua rappresentazione si fa sempre più evidente, come porsi di fronte alle contingenze, alla materia informe del visibile, all’incognita dell’invisibile?
La posizione voyeuristica che, nonostante le dichiarazioni del regista, rimanda inevitabilmente a quella dello spettatore di fronte alla proiezione cinematografica, ha un importante fattore di confusione. Se la società dello spettacolo moltiplica le possibilità di registrazione (videocamere di sorveglianza, telefonini, dispositivi diversificati) quanto di quello che vediamo è messa in scena e quanto è reale? E se fossero gli osservatori ad essere osservati, ad essere loro stessi il soggetto di un nuovo dispositivo funzionale?
Venail conduce l’intervista alternando i primi piani a silenzi eloquenti che rimandano alle infinite possibilità in cui una storia può prendere vita e svilupparsi. Nolot gioca con le espressioni facciali trascinando l’intervista verso la nebbia ontologica, verso l’impossibilità a definire i ricordi dalla propria fantasia, ciò che è esistito da ciò che è sognato. Quell’evento è davvero avvenuto o è solo frutto di una personale rielaborazione del materiale visivo? Nolot sembra il filosofo Hans Castorp nella Montagna Incantata di Mann (“cio che aveva sognato stava impallidendo, ciò che aveva pensato già si confondeva nella sua mente…”) e toglie gli ultimi riferimenti all’intervistatore, negando lo spazio e il luogo degli avvenimenti.

E se questa camera oscura fosse semplicemente una zona di sicurezza in cui ciò che è e ciò che appare coincidono? Allora qualsiasi intervento attivo (evitare un atto terroristico, impedire uno stupro) presuppone la violazione del tacito accordo tra regista e spettatore. Come nell’esperimento del gatto di Schrodinger, l’atto dell’osservatore modifica il sistema, rivelandone l’artificio o la verità. L’ultimo lungo piano sequenza cita il finale di Cachè di Haneke e sembra affermare che i film possano comunque filosofare per proprio conto registrando il flusso della vita da un punto segreto. Ma il produttore attraversa la strada e due ragazzi in motorino fanno un cenno di saluto verso la telecamera: forse il nocciolo del Reale continua a sfuggire.
Il Cinema rimane una forma espressiva che sta alla percezione come il linguaggio sta al pensiero concettuale. Ma è forse l’unica forma d’arte capace di evocare l’invisibile mostrando il visibile.

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