Stallone, il ritorno di un corpo (de)costruito

In Get Carter appare fantasma di se stesso, ombra di un passato che riemerge nel presente. Destinato alla sconfitta, alla perdita di una parte di sé, all’annientamento definitivo delle sue radici

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Saremo forse dei malinconici senza possibilità di rimedio, ma amiamo la figura del ritorno. E la sua immagine dai contorni mai troppo definiti in cui l’essenza del giorno passato si intreccia con quella dell’oggi realizzando un rapporto simbiotico tutto da decifrare, da analizzare. Heidegger parlava di ritorno in un luogo dove non si è mai stati, e forse aveva ragione. D’altronde il tornare in un determinato spazio all’interno di un determinato tempo, rappresenta una falsa illusione, una speranza negata in partenza. Ecco quindi come il rimettere piede su di un terreno già attraversato, all’interno di una prospettiva già abusata (potere dell’occhio\mente), possa essere a volte foriera di sfasamenti impercettibili pronti a causare una vera e propria odissea di uno sguardo incapace di riadattarsi ai confini del nuovo ambiente. In questi giorni ci siamo rallegrati della rinascita di un cinema potente\classico\epico\totale con “Pearl Harbor” e quasi abbiamo fatto fatica ad abituarci alla vista di immagini così deflagranti da provocare un vero e proprio sussulto della visione, capaci di riallacciarsi all’essenza di un cinema che abbiamo sempre sognato come possibilità da (ri)concretizzarsi. Ma è di un altro ritorno che vorremmo parlare, un ritorno scandito da toni più bassi, da accenti più sommessi: il ritorno di Stallone. E la sua nuova trasformazione che assomiglia tanto ad un nuovo allontanamento. Andiamo con calma però e soffermiamoci sull’immagine\corpo rappresentata da Stallone lungo il corso degli anni ’80. Un corpo palestrato, lucido, tirato al massimo, capace di riconfigurare all’interno di film di genere un percorso a suo modo classico, un approccio tradizionale al narrato, un avvicinamento costante alla natura stessa del cinema. Ci viene in mente la saga del pugile Rocky Balboa, l’odissea vietnamita del reduce Rambo e tanti altri esempi che stanno a testimoniare di un radicale attaccamento a una forma cinema capace di racchiudere in sé un’enciclopedia di figure retoriche in bilico tra l’apoteosi del corpo\macchina e la funesta sconfitta del corpo\uomo (da intendere in senso pulsionale, affettivo, sentimentale). In questo senso un po’ tutti i capitoli dell’avventura cinematografica di Stallone potrebbero essere interpretati come il climax discendente di un corpo e della sua ragione di essere all’interno di un meccanismo sociale, politico e culturale che lo respinge dal proprio tessuto. Esempio lancinante di ciò, è sicuramente l’ultimo capitolo di Rocky in cui il protagonista, vera e propria macchina per far soldi perfettamente integrata all’interno di un certo sistema, comincia a perdere colpi e, guarda caso, si vede costretto a tornare sui suoi passi e a ricominciare tutto come prima, riagganciandosi quindi a quella vita occultata e rimossa che era stato poi tema dei primi due film della serie. Un corpo-in-fuga da un possibile assestamento definito della propria situazione, un corpo tendente all’evasione (“Sorvegliato speciale”), una dimensione corporea che si contraddice per quello che è apparentemente. Eccolo quindi il valore finemente eversivo e per certi versi anti-modernista del suo cinema, capace di vivere un’apparenza di forme risolte in sé (l’ipermuscolarità ingombrante, il carattere di deus ex machina per ogni tipo di situazione) per poi disfarle attraverso un’estetica della sconfitta dalle proporzioni tutt’altro che serene o riconciliate.
Quello che il corpo di Stallone ha provocato nel cinema degli anni ’80 (simile in questo a quello del grande John Belushi) è un vero e proprio cortocircuito mirato all’annientamento di ogni logos precostituito, di ogni retorica da salotto buona per tutte le occasioni. All’interno di una dimensione culturale legata al trionfo del corpo-integrato nel sistema, Stallone ha avuto il coraggio di mettere in crisi l’idea stessa di integrazione, mostrando i lati bui di una condizione (quella del proletario Balboa, quella del disadattato Rambo e ancora quella dell’escluso dal nucleo familiare in “Over the top”) difficile da gestire se non appunto “tornano sui suoi passi”. Un po’ come fa John Rambo tornando nel suo inferno (la giungla del Vietnam), o anche Rocky riavvicinandosi alle case e al quartiere di Philadelphia in cui era cresciuto. Ci troviamo così di fronte ad un’immagine molto chiara e per certi versi destabilizzante: quella di un corpo che si ritrova a fare i conti con se stesso e con la sua vera natura. Da qui quell’aurea di reinventato classicismo che si respira nei suoi film, un classicismo destinato sin dall’inizio a risolversi in una sintassi fisica, ma al tempo stesso astratta di forme e motivi chiari, trasparenti, eppure capaci di contenere al loro interno uno slittamento semantico che li porta ad essere soggetto ed oggetto della rappresentazione, forma e contenuto dello specifico filmico.
La storia del cinema di Stallone può così essere racchiusa all’interno di una riflessione su di un corpo nato per essere fagocitato nella stretta morsa del conformismo, ma destinato a rompere ogni schema per tornare alla reale essenza di corpo “semplice” votato alla sofferenza e al sacrificio. E questo processo di trasformazione\ritorno, ha toccato vette di grande interesse proprio in quel “Copland” di qualche anno fa in cui Stallone appariva irriconoscibile nei suoi venti chili di troppo. Una dimostrazione chiara questa, di come si riesca a giungere al vero e proprio paradosso della presenza, negandosi per ciò che (sempre in apparenza) si è stati.
Non ci meraviglia quindi che in questo suo ultimo film ”La vendetta di Carter”, si vada addirittura oltre, fino a rifondare ogni prospettiva di riavvicinamento\ritorno su modalità che sembrano prevedere al loro interno solo l’esclusione. Nel film Stallone non è, ma appare. Fantasma di se stesso, ombra di un passato che si spoglia delle sue antiche vestigie per cercare di riaffermare la propria presenza nel presente, ma senza successo. Destinato alla sconfitta, alla perdita di una parte di sé e soprattutto all’annientamento definitivo delle proprie radici. Un ritorno questo poi scandito da una vera e propria inversione dei piani della visione. Al classicismo pulito e avvolto da una pulizia formale considerevole di “Copland” e di “Rocky 5”, ad un set accarezzato da un incrocio di fasci di luce antinaturalistiche che sembrerebbero quasi suggerire un’intenzione metafilmica. Ed è su questo piano della visione che il corpo “trasparente” di Stallone scivola via, ribaltando l’apparente ed estrema fisicità del quadro prospettico in un gioco di luci ed ombre che sanno tanto di vero e proprio gioco con i paradossi di una presenza filmica sul punto di cedere. Lo vediamo (muscolatura ricostruita, sguardo da duro, freddezza implacabile), ma al tempo stesso già ne avvertiamo il progressivo allontanamento verso una nuova ri-costruzione del proprio essere. Pronto a disfarsi nuovamente del proprio status corporeo per trascinarlo nelle secche del pianto, del rimorso, del pentimento.
Mutatis mutandis.

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