STRADE SPERDUTE OVVERO L’OCCHIO MANCANTE di Paolo Tenca

Anche per un agnostico nulla può essere ciò che sembra

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CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

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“Sul bianco tavolo di fòrmica / una formìca solitaria / gira in senso antiorario / simile alla lancetta vivente / d’un orologio biologico. / Forse è intenta a dipanare / il gomitolo del tempo. Il suo è solo moto perverso / o l’annuncio d’una prossima / inversione generale dei moti? / Già intravedo un’altra formìca / intenta a riavvolgere ciò / che la prima ha svolto; / i movimenti di entrambe / divengono concentrici / come quelli di due centauri / nel giro della morte. / Le loro orbite si intersecano / con rischio di collisione; / provo a sviarle dal loro / inconsapevole proposito, / nel tentativo di scongiurare / una catastrofe cosmica.”
(Valentino Zeichen, “Il gomitolo del tempo”, da “Metafisica tascabile”)

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#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

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“…se volessi modificherei il mio viso e ripartirei da zero / ma sarebbe come arrendersi a quello che non sono / e non sentirsi libero / di non essere felice / di non sentirmi vivo…”
(Manuel Agnelli, cantante e chitarrista degli Afterhours, nel brano “Milano circonvallazione esterna” dall’album “Non è per sempre”)

“…Il tempo non esiste. Non mi sento nato e non mi sento cristiano, tantomeno cattolico. Non festeggio, né lutteggio i miei anniversari…Perseguo da sempre lo smarrimento delle genti…Il calendario è una muraglia cinese contro l’innocenza del divenire, che non dovrebbe ammettere certificazioni come la carta del tempo…Ma è tutto già passato …La storia è questo canestro di scorie miserrime, casualissime, di un possibile già tutto accaduto…Quando si parla di raccontare una vita, non è assolutamente quello che si sta raccontando, ma quello che si omette…Quello che conta non l’ho mai realizzato. E’ quanto non son riuscito a fare. E’ quanto è stato, come me, abortito…Qualcosa che ti disfa e di cui ti sbarazzi. La vita come misfatto.”
(Carmelo Bene, dal libro-intervista con Giancarlo Dotto “Vita di Carmelo Bene”)

“Nulla è ciò che ignoro. / Tutto è ciò che so. / Ma nulla è di tutto ciò.”
(Anonimo Artigiano, da “I miei sms”, mai pubblicato)

“Fai quel che devi, accada quel che può.”
(Ernesto Rossi, sempre)

introduzione

Strade sperdute
ovvero l’occhio mancante

Anche per un agnostico nulla può essere ciò che sembra

Da dove veniamo e dove stiamo andando? L’ilarità suscitata da questi due quesiti filosofici rozzi ma efficaci è direttamente proporzionale all’atavica irrisolvibilità dell’enigma che evocano. Superato il moto di risa nessuno può evitare l’imbattersi in un vicolo, forse un crocevia, che più cieco non si può. Cieca è anche l’enorme muraglia che delimita i confini della “Dark city” – di Alex Proyas imprigionandola in un’eterna notte dove nessuno vede veramente altro dal proprio sé quotidiano. Ma perfino il “sé” diventa poco attendibile se nel sonno qualcuno e/o qualcosa a nostra insaputa manipola le nostre memorie, cambia le fisionomie delle nostre case e delle nostre vite disegnando scenari inevitabilmente cupi ed inquietanti, non appartenenti a noi ma a fantasmi eterodiretti, occupanti abusivi dei nostri corpi, delle nostre fattezze, delle nostre movenze. Come se il taglio del negativo della nostra esistenza fosse deciso già “in macchina”, a priori. Pelle e pellicola scorrerebbero in tal modo distinti e distanti, paralleli senza possibilità trasversali di contatto. Pescando nei nostri abissi un qualcosa, un retaggio sconosciuto, un’esca sfuggente perché già sfuggita, un deja-vù mai visto come il paesaggio balneare che ossessiona il protagonista del film, potremmo però trovare, se non la luce, una luce, forse utile a combattere il nostro destino, forse fuorviante se in un nanosecondo mentre ci attraversa già si fa ricordo. Ricordo vivente, presente, continuo di e dentro noi stessi. Fotogramma che ci illudiamo di congelare per poterne assaporare appieno la sensazione. Agognata ma involontaria sospensione pre-virtuale di una vita pre-filmica. Traccia avvertita di un percorso nel quale ci sembra di essere chiamati da chissà dove mentre magari lo stiamo già intraprendendo. Ma noi pur girando a vuoto goffamente in un vasto e invalicabile salone da angelo sterminatore bunueliano non ci arrenderemo perché tenacemente cerchiamo una risposta. Certamente si può dare una risposta scientifica, “illuminante” quanto si vuole ma materica, troppo vicina alla realtà fisica e troppo lontana da un livello temporale appena immaginabile. Non appena proviamo a infrangere questa barriera superando anche solo per un attimo i confini più o meno elastici della fede entriamo in un labirinto imperscrutabile di strade che portano a nulla e a tutto, ovunque e in nessun luogo, dentro e fuori il nostro io, per come lo abbiamo sempre inteso.
Ogni risposta può essere giusta perché data in un territorio più che libero e sarà possibile trasformarsi come il Bill Pullman di “Strade perdute” – di Lynch, mai così religioso e “divino”, perché una qualche strada dentro di noi segue proprio quella direzione e ogni cosa potrà vivere “due volte” come Patricia Arquette, perché andrà oltre quella vita conosciuta che non torna mai. Quella vita che Rossellini sapeva catturare così bene, automaticamente, affidandosi alla forza dell’accadimento con l’apparente contraddizione di chi ha in realtà un atteggiamento rigoroso quanto quello di un regista (mai termine fu più inadeguato per un lavoro: cosa mai si può veramente dirigere invece che solo stimolare e cogliere se non si è Dio?) a lui lontano come Kubrick. Anch’egli avvertiva la forza visiva del mondo ma voleva comandarla questa forza, imporla, non seguirla anche se alla fine ciò che poteva uscire fuori era pur sempre qualcosa di casuale, contingente, rosselliniano potremmo dire per conciliare gli opposti. Paradosso del dittatore. E così di riflesso in questo nostro aldiquà si potrà giungere ad una mèta, si potrà percorrere la lunga strada rettilinea di “Una storia vera” – ma ben sapendo che il successo dell’impresa o un diverso approdo eventuale sarà dato solo dalla risultante del lungo braccio di ferro tra la nostra caparbietà e i movimenti imprevedibili del caso. Chi vince di volta in volta potrà avere l’ultima parola per uccidere il nero, per tagliare le interlinee di fotogrammi girati e sviluppati, più o meno sceneggiati, più o meno improvvisati e/o improvvisanti. Il braccio di ferro è quello che hanno combattuto tanti coraggiosi autori (anche su questo termine ci sarebbe da dissertare… è autore chi riesce a creare un proprio originale mondo cinematografico o solo qualcuno ben inserito nei salotti del nostro conformismo mentale e dal mondo sa cogliere tematiche quanto più opportunamente attese?) di cinema, soprattutto contro il gigante hollywoodiano, per cercare di strappare dalle loro visioni il ticket d’ingresso per le autostrade dell’immaginario collettivo. Così Von Stroheim, Welles, con o senza i piani-sequenza, Griffith, Mèlies, i Lumière (i più inconsapevoli in assoluto di ciò, tanto da capire col loro disincanto protopubblicitario la leggerezza della macchina/cinema e forse proprio per questo vincenti storicamente su altri pionieri), Polanski, Herzog, Lang, Lynch, Tarantino forse. Ad un livello assoluto, di maniacale tentato dominio sul proprio universo creativo, Napoleone Bonaparte in arte Stanley Kubrick, ancora, ovviamente. Chi più chi meno, tutti a lottare per modellare, se non creare, un mondo secondo le proprie istanze, un mondo che deve rifare un mondo già di per sé inafferrabile, inarrestabile, inconciliabile, talvolta inconcepibile. Così anche singoli film-acci/oni/etti/ati/ini/issimi, singole sequenze o facce o fotogrammi o dominanti cromatiche che si stampano nella nostra memoria non possono esimersi dal ringraziare le forze misteriose del caso. Infinite le convergenze, le coincidenze, le dinamiche impazzite o solo giocate che malgrado tutto hanno indirizzato il cinema lungo la strada che fino ad oggi abbiamo conosciuto. Proviamo semplicemente a riproporre in chiave cinematografica le “What if stories” dei fumetti Marvel dove si ipotizzavano realtà parallele determinate da una scelta diversa da quella effettuata in passato dal protagonista (a sproposito: quanto ci manca un Pasolini oggi, nell’era di una globalizzazione di cui non si vuol parlare fino in fondo se non per via manicheistica, a ogni livello?). Potrebbe essere un divertente gioco di società. O un utile test di “personalità cinematografica”. Ma impazziremmo. Un attore sconosciuto pescato in un book sfogliato per sbaglio al posto di un altro più famoso, una strategia distributiva più azzardata nel momento più favorevole, un contenzioso legale risolto in un certo modo, un regista che non muore in un incidente e realizza un film fondamentale già in cantiere o non so cos’altro. So solo che potrebbe cambiare il mondo tutto, cinematografico e non (soprattutto se questa forza misteriosa intervenisse sugli anni ’10 e ’20, credo). Perfino Moretti nella sua fobica ed artificiosa disciplina di sé come azione e pensiero potrebbe non diventare il Moretti icona morale dei nostri giorni.
L’unico minimo comun denominatore sembra allora essere quello del Mistero, vero nume tutelare cui forse dovrebbe essere rivolta ogni forma di culto, intendendo per culto un continuo e libero dialogo. Mistero della vita e anche della morte. Anzi. Una delle poche, se non la sola evidentissima pietra miliare del nostro viaggio è proprio la morte, o per dirla epicureamente la non più vita. Il Grande Rimosso così scompare dai nostri discorsi quotidiani alti e bassi, specie nelle società industrializzate che infatti sanno elaborare i propri/nostri lutti solo con la vicinanza dell’ora e l’ipocrisia del dopo. Anche nei film la morte spesso si mostra perché attira l’istintività dell’occhio ma non se ne parla mai abbastanza -il cinema rifletterebbe su sé stesso rompendo lo specchio?- e nei discorsi è spesso “invisibile”, sotto traccia, scompare. Scompare con essa ogni discorso sul destino in quanto rappresenta l’appiglio necessario all’ineluttabilità di quest’ultimo. Il Nosferatu di Herzog è stancamente restio a seguire il proprio perché già imprigionato in un’eterna morte mentre quello rappresentato da Murnau assolve il compito di diffonderne morbo e presagio. E l’epico Dracula di Coppola, angelo caduto che vorrebbe redimersi per ottenere la vita che gli spetta, non trova pace se non nel sacrificio finale. Il “Destino” – di Fritz Lang è romanticamente visto come unica possibile strada verso l’amore eterno, oltre la vita, vita che non si può ridare perché già vissuta, già morta e quindi da cavalcare senza remore come fanno i vampiri sopracitati. Ma il vampirismo – è il cinema stesso nei rapporti che stabilisce tra sé e il mondo e tra sé e lo spettatore. E vampiri siamo noi di fronte alla realtà che guardiamo e alla stesso tempo sfruttiamo per placare attimo dopo attimo la nostra sete. Tutte queste relazioni vanno avanti perché continuamente muoiono e con esse muore la visione che se ne ha.
La morte dovrebbe allora essere un faro guida, l’accadimento in cui l’uomo è (in)consapevole prima o poi di imbattersi, a differenza della nascita, la venuta alla luce che altri o altro hanno deciso per noi. Perché siamo in fondo dei Kaspar Hauser -, materia vivente e incarnata di un enigma senza tempo e luogo, che andiamo avanti, confusi ma andiamo. La vita dovrebbe così essere impostata su quel passaggio finale che darà il senso ultimo a tutto. Come il Takeshi Kitano che con la faccia da Buster Keaton del terzo millennio attende l’evolversi della tragedia già scritta e codificata, anzi quasi se ne fa trascinare, con una rassegnazione che se non fosse inframezzata dal sangue improvviso quasi ci farebbe sorridere tanto è ostentata nella sua passività. Come i mille registi-demiurghi che nei loro finali, le “morti” dei film, creature vive e autonome di un mondo ricreato, cercano di indicare ingenuamente una strada percorribile, il più delle volte fin troppo comoda. E noi tutti lavoriamo, sudiamo, ci sbattiamo ma perché? Non è forse ogni cosa un continuo esorcizzare, una reiterata, sconnessa e folle danza macabra? L’uomo che non lavora non è forse minato da latenti tendenze suicide? Non è la vita che dovrebbe terrorizzarci? Perché si è insofferenti dinanzi ai lunghi (lunghi? Ma per chi? Rispetto a cosa? E in base a quali parametri?) piani-sequenza fissi di Straub e Huillet? Cos’è se non l’idea della vita che emerge col suo volto meno conciliante e ci prende al collo? “Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci”. Così Pasolini vedeva la morte come senso e la vita come sacro in aperta antitesi all’aldilà cattolico, vedendo nella tragedia dell’uomo la sua grandezza. Senza di essa non siamo che un coacervo caotico di possibilità, di ricerca vana di significati o di atti cercati, mancati e trapassati. E il Cristo de “Il vangelo secondo Matteo” può nonostante la sua dimensione rivoluzionaria farsi esempio di rigore morale e divinità laica così come il povero cristo di “Accattone”, nella sua ostinata disperazione, così simile a quella del suo autore, resiste ad un destino inevitabile pur sapendo che tutto sarà vano e solo nella morte gli sarà concessa la vera libertà. E anche la vera coscienza? Le marionette di “Che cosa sono le nuvole?” la acquisiranno una volta usciti dal teatrino della vita dove mossi da un burattinaio super partes si barcamenavano tra inganni, senso comune e convenzione e solo quando verranno gettati in una discarica potranno godere della bellezza infinita del creato, della verità che sciolta inevitabilmente dai legami logici può essere vista. E la vita può essere veramente vista? Basta liberarsi dai mille lacci e lacciuoli della nostra esistenza e dai dogmi di ogni tipo che ci castrano, come ci mostra magistralmente Bunuel, per ritrovare la libertà perduta? O si tratta solo del suo fantasma? La vita è accecante come il destino atroce di Edipo, pasoliniano e non, o se ne può essere solo disgustati come Moretti – che sin dai suoi primi film ci mette davanti all’ossessione di voler sorvegliare e guidare il proprio mondo, anche e soprattutto cinematografico, e di creare i presupposti di un mondo altro, auspicato nelle (cosiddette) rigorose scelte morali di volta in volta effettuate. Inevitabile sarà la sconfitta dinanzi ad un destino avverso che forse non si è voluto veramente contrastare per paura della relazione e del controllo che si perde e si sperde ma può arricchirci nel rapporto “sporcante” con gli altri, anche con chi sembra a noi più lontano. Altrimenti le critiche al linguaggio sterile della contemporaneità perdono di valore e l’inesprimibilità del vuoto troverà la sua manifestazione solo in simbolismi facili, forzati, coatti. Nella caccia al mistero di questa vita e nella speranza di afferrarla, di vederla veramente sarà più adeguata l’irrazionalità del bambino di “Shining” – il cui sguardo è “overlook”, occhio-guida in un eterno labirinto. O il viaggio nel Tempo e nello Spazio del 2001 kubrickiano che passa inevitabilmente attraverso esperienze visive forti, pregnanti ma private del senso comune, di modo che l’inconscio individuale possa farsene autore. Fino alla sfida di Carmelo Bene che nell’immagine in movimento vorrebbe sottrarre il limite del già “sciaguratamente espresso”, la “ripetizione differita”, la contraffazione dell’attuale. La sua “immagine-cristallo” è presente e già passato contemporaneamente, uguali nel divenire. I suoi film (non ultimo “Salomè” – il più accattivante in fondo) non potevano che essere insopportabili alla critica e al pubblico che arrivò a demolire delle sale cinematografiche perché esasperato dalla visione. Era esasperato perché aveva di fronte qualcosa che puzzava maledettamente di vita, senza ipocrisie. E ciò era impossibile da tollerare umanamente. Infatti li capisco. E’ una questione di “razza umana” o almeno così mi dicono.

1st avenue

Uomo in zero

1.1 John Murdoch ovvero quasi zero

Questo film ci ha attratto non tanto per le sue qualità cinematografiche, comunque non disprezzabili, quanto per il fatto di dar corpo in modo evidentissimo alle ossessioni che costelleranno il nostro percorso. Come in un grafico esplicativo o in un documentario industriale, ai confini del didattico, vengono rappresentate con ansia e generosità sin troppo malcelate, il che rappresenta la chiave d’interesse dell’opera ma ahimè anche il suo limite, bazzecole esistenzialiste, bazzecole capaci comunque di travolgerci. E per non farsene travolgere il cinema si è quasi sempre ben guardato dall’avvicinarle! La percezione della realtà, la sua messa in dubbio, il perché e il come del suo farsi, l’origine e la fine delle sue dinamiche spazio-temporali. Nella seconda metà degli anni novanta, grazie soprattutto a film come “The Truman show” e “Matrix”, queste tematiche sono salite agli onori del box-office e del dibattito ufficiale, giovandosi sicuramente del clima di nevrosi imperterrita e di frenesia incontrollata verso possibilità e sviluppi offerti dai mass-media, da Internet, dalle realtà virtuali e via profetizzando/utopizzando/apocalittizzando. “Dark city” di Alex Proyas pur inserendosi in questo filone, addirittura anticipando i due film sopraccitati, non ha ottenuto la stessa attenzione, troppo legato alle aspettative destate dal successo de “Il corvo”, troppo irrisolto nel tentativo di legare l’immaginario fantascientifico classico ma anche solo quello cupo e visionario del regista ad un discorso più ampio, universale, maturo. Probabilmente non è stato presentato in maniera efficace ma come poteva essere possibile? I fans del Corvo hanno forse intuito che ad attrarli era stata più la figura mitizzata e comunque enigmatica di Brandon Lee che non gli scenari post-burtoniani ostentati ad uso e consumo delle nuove generazioni dark, scenari più adatti ad un videoclip rievocativo dei Cure o di Siouxsie & the Banshees che ad un lungometraggio per altro ambizioso. Nell’ambito della science-fiction “Dark city” risulta legato al genere più per l’ambientazione, per l’abbondanza dei rimandi che per altro, un altro troppo meccanico e farraginoso nei suoi meccanismi visivo-testuali per sfondare. Poca anche la suspence e l’azione pura. Non si crede abbastanza alla macchina/cinema per dare al film la freschezza e l’omogeneità di un prodotto d’intrattenimento godibile e allo stesso modo non si può entrare in un contesto autoriale perché manca un tocco che si possa riconoscere, perché il discorso d’insieme è confuso ed appiccicaticcio, perché l’orgia citazionista di Proyas è troppo consapevole ed esibita.
Ma è proprio questo bignamismo visivo ad interessarci. Cos’altro ci può interessare di questo giovane presuntuoso che proviene dal videoclip (Crowded House, Sting, Inxs) e dalla pubblicità
(Nike, Kleenex, American Express) e non perde occasione per ricordarcelo? Del pubblicitario ha sicuramente la sicurezza dell’inquadratura e una certa pulizia ed eleganza formale, pur di maniera, ma non possiede lo sguardo dell’oltre, quel potere di certa pubblicità nel surriscaldare all’inverosimile scene di ordinaria quotidianità o altre insolite ma apparentemente banali e immotivate. Ecco direi che Proyas è il regista del Motivato, un antisituazionista puntellatore di strutture preimpostate, di ciò che sullo schermo dovremmo ritenere giusto, soddisfacente, conforme alle nostre aspettative di visione. Dal suo punto di vista, un punto di vista dark, quindi parziale. Ma se il dark deve essere una tendenza da far riemergere carsicamente non ci si può affidare a rappresentazioni da anni ’80 (massimo rispetto, per carità…), già assimilate e prive anche dell’effetto nostalgia/tributo. E se deve essere uno stile o un modus non può essere un qualcosa di granitico, continuo, immutabile. Il cinema di Proyas è sempre troppo uguale a sé stesso, fotogramma dopo fotogramma: stesse angolazioni, stessa luce, stesse espressioni seriose ed angosciate, stessi ambienti, anche il montaggio si ripete in accelerazioni giovanilistiche che stonano con la classicità di molte inquadrature. Non si tratta di cifre di stile ma di fissità dell’ovvio. Ci viene in mente il pallore dei volti incipriati dei vecchi dark, sempre lì ad ammonirci da mattina a sera ma che se andavi a scavare oltre l’epidermide delle apparenze usciva spesso una vitalità e un’ironia superiori alla media, come si conviene ad esistenzialisti di strada che non si pongono troppi problemi a giocare con argomenti praticamente tabù. Nel mondo di Proyas deve essere rimasta un bel po’ di quella cipria visto che con essa ha verniciato le pareti della sua Red Room ideale, del resto v’è ben poca traccia. In fondo alla cipria è strettamente legato visto che alla morte e resurrezione di Viso Pallido Brandon deve molto, forse tutto. Senza questa icona virtuale, la più dirompente nel cinema degli ultimi anni prima del “titanico” Di Caprio, non ci sarebbe mai stato quell’affascinante e tragico gioco del destino, quel devastante corto circuito tra realtà e finzione, tanto caro a certo giornalismo così carente di fantasia e mai di necrofilia, da non poter fare a meno di tirare la volata al successo della pellicola. Come non si poteva poi evidenziare la modernità delle tecnologie utili a riesumare l’attore così che a sua volta il protagonista poteva risorgere guidato dal corvo e compiere la sua vendetta? Ma anziché riflettere sugli scenari che potrebbe aprire il cinema virtuale si è dato inizio ad un carillon litanico che non faceva altro che invocare ossessivamente il Dio del digitale perché bisognava solo essere stupefatti, perchè Brandon, non più il figlio di Bruce Lee ma ormai e definitivamente solo “il Corvo”, era morto ma era ancora vivo. Quanti film sono usciti a ridosso della morte dell’attore protagonista beneficiandone della risonanza? Non è già il cinema di per sé dispensatore di immortalità, sepolcro postfoscoliano? In pochi hanno capito o evidenziato che in realtà non è stata la rinascita ad essere sconvolgente quanto il suo presupposto (mezzi, fini, prefigurazione dei primi rispetto ai secondi… Gandhi –dove sei?) ovvero la prospettiva di un attore completamente virtuale. Non mi sembra un dibattito senza motivi d’interesse, troverei difficile prendere una posizione netta. Altro che morte di Brandon, in questo caso Brandon poteva anche non essere mai nato! Se di miracolo si è trattato è avvenuto prima del film che non è né miracoloso né miracolistico. Allora si sarebbe dovuto rispettare l’opera filmica nella sua definitezza materico/stilistica e piuttosto farne il portato di una diversa realtà produttiva senza confondere continuamente in modo anche civettuolo le due fasi. Per riaprire il dibattito (sìììììì!!!) bisognerà aspettare un’altra morte (Reed ne “Il gladiatore”) o la Aki di “Final fantasy” o l’atteso “Simone” di Andrew Nicoll (già sceneggiatore di “The Truman show” nonché autore del fantagenetico ed affascinante “Gattaca”) quando era invece tutto già lampante. Perché Proyas o la produzione non hanno pensato di affidare ad un Brandon Lee completamente virtuale il ruolo del protagonista di “Dark city”? Quanto ci servono i dibattiti, altro che! Ma se devono servire a scuoterci e pensare, a conoscere e deliberare devono essere temerari e ad ampio spettro. Altrimenti uno come Proyas continuerà a sentirsi un regista in sintonia col nostro tempo, moderno!
La visione del suo film è semplicemente un’esperienza da rigattiere, divertente se si vuole ma inerte. Tutto è pubblicità di ieri nel senso che promuove in modo calligrafico vecchi mondi cinematografici o al contrario tutto è utilizzabile oggi come pubblicità in senso vero e proprio. Così anche la locandina, che così sfacciatamente ci si catapulta di peso come da un fotogramma del già citatissimo Metropolis, vogliamo utilizzarla per promuovere il nostro lavoro. Ci sembra perfetta, è il massimo comun denominatore dei nostri discorsi sul tempo, sull’uomo, sul destino e sulle lotte che combattono fra di loro. Allo stesso modo possiamo ammirare le pubblicità di Blade Runner, di Batman, di Hellraiser, di Nosferatu, di Orwell, di Dick, di Kafka, di quadri di De Chirico e Dalì, di Bogart e del noir americano, dei comics di Frank Miller, degli omini- ingranaggio degli spot degli orologi Baume-Mercier, della Bibbia, della nostra memoria, del mistero della Creazione, di non so cos’altro vorrete o saprete trovarci voi. Citazioni congelate. Fotogrammi congelati come tavole di una strip. Emozioni congelate. Per cogliere il senso del film in fondo sono sufficienti prologo ed epilogo. L’incipit kafkiano ci presenta subito un John Murdoch (Murdoch, Murdoch, comunicazione…) emergere improvvisamente dall’acqua “amniotica” di una vasca insieme ad un pesciolino rosso che cade per terra, un “rumble fish” che il nostro non esita a salvare. Sembra essere venuto al mondo in quel preciso istante tanto è il suo spaesamento dinanzi ad un mondo che non sa riconoscere, soprattutto se questo mondo lo considera subito colpevole, sotto processo, un serial killer. In realtà lui è l’Uomo Nuovo, il Messia, un superprofeta nietzschiano il cui potere risiede nel dar corpo a quelle immagini che lui stesso riesce a ripescare dal suo inconscio ormai disfatto dagli Strangers ma mai domo. La sua anima infatti nonostante i loro sforzi risulterà resistente ad ogni tentativo di controllo perché un’anima non si può ridurre a zero. Mai. Certo nel caso degli abitanti di Dark City, tranne quei pochi che per puro caso si sono svegliati dal “letargo” imposto ad ogni mezzanotte per poi inevitabilmente impazzire, l’esito sembrerebbe diverso. Ma come gli Strangers, comunità interdipendente in una sola anima, una sorta di coscienza collettiva, non riescono a tenere a bada le emozioni della vita di un individuo e una volta entrati nella sua memoria pur artefatta ne vogliono seguire fino in fondo tutti i meandri così gli abitanti di Dark City dipenderanno alla fine dalle visioni di uno di loro, dalla Shell Beach di John Murdoch. E’ il vecchio conflitto, contraddittorio e forse eterno, tra individualismo e massificazione del pensiero, l’uno avvinghiato all’altro con gli opportuni pesi e contrappesi del caso. Rispetto al Jim Carrey/Truman Burbank che fugge in un mondo “altro”, più vero e libero qui sembrerebbe esserci un maggiore ottimismo visto che il protagonista rimane nel suo (?) mondo e lo plasma in base ai suoi desideri, ai suoi ricordi. Ma anche quest’ultima realtà, una realtà accattivante e fascinosa perché baciata da una solarità mai vista prima risulta un’illusione, una pia illusione ottica. Anche per un agnostico nulla può essere ciò che sembra.

Dark city (id., Usa/Australia 1997), Alex Proyas

1.2 Kaspar Hauser ovvero da zero a zero

Chi è Kaspar Hauser? Si può veramente ridurre al fatto di cronaca del secolo scorso o al film in questione e ciò può bastare ad esaurirne il portato universale? Non è proprio la consapevolezza di questa particolare vita, esistita e poi di nuovo messa in mostra, in fondo ad eliderla e a redistribuirla a tutti noi? Il disagio c’è ed è forte perché la scarsa vitalità che persona e personaggio in apparenza mostrano stride fortemente con l’energia ad alta tensione provocata dal solo pensiero che un simil individuo possa essere passato per uno scherzo del destino in questo nostro universo, foss’anche come forma puramente ipotetica. Non c’è scampo, non c’è speranza, nessuno resta indenne al passaggio dell’idea-Kaspar, tanto più se in un rapporto già di per sé ultramaterico ed ultratemporale come può essere quello di una cine-visione.
Ciò che scorre davanti ai nostri occhi non è realismo né l’herzoghiana “verità intensificata” comunemente intesa. E’ pura realtà cinetica. Senza avventurarci in sentieri ontologici impervi rivendichiamo il valore della realtà cinematografica in sè, degli sconquassi che può provocare il passaggio dell’obiettivo di una cinepresa nel mondo, modificandolo per sempre. E modificando noi, loro, tutti. Anche l’attore/non-attore Bruno S. dal nome kafkiano e dal passato tormentato da riformatori e carceri così simile alla figura cui dà corpo avrà acquisito forse una più forte coscienza di sé alla fine di quest’avventura. Come noi fermi lì ad interrogarci alla fine del film su dove porti veramente quella strada percorsa dal grigio e pedante burocrate, l’uomo del registro, una volta appresa la morte del protagonista. Ripensiamo a quella piazza da cui si è visto spuntare un giorno Kaspar Hauser, dritto impalato lì come un uomo-sandwich in protesta per qualcosa. E ci sentiamo come risucchiati nel gorgo di un vortice mentale. Ci appare tutto così vero e allo stesso tempo tutto viene avvertito come lontano e diverso. Siamo incantati, storditi, stregati. Herzog è forse uno sciamano. E la sua opera cos’è? Non un esercizio di stile realistico, non un documentario, non un film-documento (anche se un film è sempre un documento di qualcosa). Ci piace pensare alla fortissima empatia che sa provare il regista tedesco con le esperienze, l’ambiente e gli ambienti, gli uomini e loro pulsioni recondite, gli animali, la natura tutta. E con noi, inevitabilmente testimoni oculari di una realtà ipnotica e osmotica, apparentemente allucinata perché trasudante vita, quella vita che si nutre di altre vite, quella vita che sembra mancare a tanti, troppi film italiani di oggi (e di mai), così forzosamente sociali, sociologici, politically correct. Fuor di leggenda l’Herzog che sente in modo così “intensificato” il proprio set, una grotta, una montagna, un fiume, una foresta, abitandolo, arrendendovisi perché se ne vuol fare catturare per catturarlo a sua volta non può non lasciare un segno indelebile di verità nel film. E ogni eventuale sgrammaticatura avrà quella forza interna da renderla quasi invisibile per la sua necessità. Se ci si danna l’anima per creare un giardino in un certo modo e nel tempo che maledettamente serve -è mai stato tentato un debito parallelo con i set di Von Stroheim?- l’occhio difficilmente non offrirà lo sguardo più efficace al momento più giusto. Anche se sarà uno sguardo disturbante che non ci farà capire fino in fondo i rapporti di forza in ciò che vediamo. Quanto di Herzog, quanto del mondo, quanto del cinema.
Deviante, terrorizzante, intollerabile come ciò che incarna Kaspar Hauser. E’ l’estraneità, l’antisociale, l’inculturale ma anche apertura ad una comunicazione reale, non predeterminata dalla logica. Vittima obbligata ma non angosciata, oppressa e opprimente, fenomeno da baraccone come il Gabriele Paolini che osa sfidare le leggi della costruzione televisivo-burocratica del reale, non può che andare incontro alla morte, non importa per mano di chi. Quella morte già preconizzata nelle visioni surreali di paesaggi mai visti e proprio per questo meglio immaginati. E dove forse ora potrà cavalcare liberamente come sognava. C-A-V-A-L-L-O!

L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder fur sich und Gott gegen alle, Rft 1974), Werner Herzog

1.3 Dracula è come il nostro telecomando

Dracula è come il nostro telecomando. Appaga la nostra bramosia del vedere. Vede, succhia e va dove vuole. Vede come vuole. Si fa vedere solo da chi vuole, da chi crede nelle proprie allucinazioni, quindi in lui. E sragiona, segue l’impeto di chi non ha da perdere alcunché se non la vita, sconvolgendo e sfrenando i ritmi ordinari in una malata esaltazione sensuale. Dannato
–il mondo, dannati noi a cedere al Male, impotenti nel recitare un gioco di attrazione/repulsione che non ce Lo fa capire né amare fino in fondo. Rimanendo schiavi succubi di quelle immagini immortali, oltre ogni assuefazione, oltre ogni parodia. Possono essere archetipo, istintiva angoscia del Nulla apparsa come per la prima volta (Murnau). Romantico grido di dolore, umano e disperato atto d’amore di un fascino ambiguo e irrefrenabile, a metà tra natura e mistero oltre che tra classicità e individualismo sofferto (Herzog). O puro metacinema, riesumato, rigiocato, ricreato dalle proprie ombre, dai propri riflessi invisibili. Proprio come un vampiro (Coppola). Resta l’esempio insuperato della figura del massimo predestinato possibile, il non-vivente che più o meno stancamente, più o meno voluttuosamente, riuscirà miracolosamente a sovvertire il destino suo e della comunità tutta. In ciò è laico e sempre (post)moderno. Zap!

Nosferatu il vampiro (Nosferatu. Eine symphonie des grauens, Germania 1922), Friedrich Wilhelm Murnau
Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu, phantom der nacht, Rft/Francia 1979), Werner Herzog
Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker’s Dracula, Usa 1992), Francis Ford Coppola

2nd avenue

Patente mistero

2.1 The lost Story

Storie rettilinee. Come autostrade. Apparentemente. In realtà perse definitivamente in quanto riavvolte su loro stesse, sul loro inizio. Ma percorrendo una linea dritta, immodificabile. Come lo sono i sogni, come lo è la vita. Procedono in quella direzione e solo quella. Così l’incubo a occhi aperti di “Lost highway”, così l’odissea riconciliante di “The Straight story”. Corpi filmici così diversi, così paradossali e contigui l’un l’altro. L’uno che rimanda all’altro e viceversa. L’uno imprescindibile senza l’altro. Perché l’uno è altro se altro non deve essere che uno. Ambedue finiscono tornando ad un incipit. Il messaggio sospirato al citofono ad un secondo sé, “Dick Laurent è morto!”. Il ritorno al cielo stellato che è continuazione del lungo viaggio in un mondo ulteriormente sospeso ma anche contemplazione serena del passato, dell’infanzia. Ma sono anche cinema che rimandano ad un’altra origine, a quell’insuperato “Eraserhead”, allo stupore angosciato di Jack Nance così vicino allo spaesamento terrorizzato e terrorizzante del Fred/Pete di “Lost highway”. O a quella progenie maledetta, ansimante, mostruosa come il sesso. Un sesso inteso come membro, inaccettabile ed alieno ma che dà vita. Vita seminata per partorire la fimografia lynchiana, vita inarrestabile e curiosamente speculare alla morte allusa nel finale di “The Straight story”. Vita sublimata come solo Lynch sa fare, così con un termosifone, uno sbuffo di fumo, un fiore, un fatto di cronaca qualsiasi o straordinario, comunque “vero”. Ma anche un sogno, un incubo, una visione “perduta”, una premonizione sono vita, solo che sublimandole possono saltare tutti gli schemi e allora le interconnessioni, le osmosi tra le due realtà sono continue ed intricatissime. O magari si tratta di due realtà sognate e sognantesi.
Il labirinto narrativo e ambientale delle “Strade perdute” è introduzione ai lenti e sconfinati paesaggi di granturco sfiorati dal vecchio Alvin che a loro volta rimandano al deserto–sterminato del Lost Highway motel. Spazi interiori, sconosciuti, disabitati, ugualmente astratti, di un altro pianeta. La motofalciatrice in fondo parte dal giardino di “Velluto blu”, quello brulicante di insetti minacciosi. La violenza di “Una storia vera” non ha la scandalosità noir degli altri film, non parte da orecchie mozzate o da fiamme seducenti del peccato. E’ più scontata, è la violenza del mondo che l’uomo ormai accetta rassegnato, un mondo che ci fa vecchi, claudicanti, “elephant old men”, depositari di memorie di guerra, ferite dolorose, sempre aperte. Un mondo dove ci si dispera per cervi casualmente investiti da macchine sfreccianti a mille all’ora, quei cervi poi così umanamente consumati, ripetutamente, automaticamente. Cibo/vita, morte/vita, sogno/vita, vita/vita. Siamo tutti uni e duplici come Alvin/fratello di Alvin, Fred/Pete, Renee/Alice, Mr.Eddy/Dick Laurent. E’ così concepibile un happy ending, perfino la fuga disperata di Fred in autostrada braccato dai poliziotti. Perché si può ripartire e trasformarsi di nuovo, come sempre. Perdendo qualcosa o tutto, la nostra storia, la Storia stessa. Finchè non si incontra l’ubiquità, la non-duplicità, quel Mistery Man spuntato fuori da un corridoio di “Shining” o dalle Red Rooms di 2001 o di Twin Peaks. Fantasma inconcepibile ma così vero, spaventoso. Via, via…

Strade perdute (Lost Highway, Usa/Francia 1996), David Lynch
Una storia vera (The Straight story, Usa 1999), David Lynch

2.2 Breve fuga nel pianeta
Chinatown

A Chinatown vige la legge non scritta del “fare il meno possibile” cui il Potere si affida per meglio opprimere la città. La fuga da questo scenario decadente è impossibile perché tutto il mondo è corrotto, tutto il mondo è Chinatown. Fedeli alla visione polanskiana parleremo il meno possibile di quest’opera splendida e irraccontabile che a vent’anni dall’uscita consigliamo di rivedere perché forse non invecchierà mai. Nell’ambito di un’operazione costruita a tavolino e seguendo le influenze del periodo che portavano a rivisitare i luoghi della memoria hollywoodiana dei tempi d’oro il regista polacco realizza un noir altamente cinèphile, ambientato negli anni ’30 in una Los Angeles ricostruita in modo impeccabile per atmosfere e ambienti. Lo si può godere anche solo così ma da una cornice apparentemente senza crepe emergono tutte le latenze tipiche del genere che instaurano un meccanismo vicino a quello della tragedia.
Film sull’ambiguità del potere, politico e non, Chinatown prende spunto dall’indagine del detective Gittes su delitti e speculazioni edilizie dietro le quali si cela una realtà immorale e in disfacimento che viene svelata a poco a poco lottando contro la reticenza di un mondo che mente perché si è arreso al Potere. Jake Gittes è l’occhio privato che importunamene vuole disvelare i falsi ruoli che la società ha imposto ma questa reagisce ai corpi ad essa estranei e lo sfregio al naso vuole reinserirlo perché così il nostro occhio potrà essere orientato su di lui, sul suo ruolo inaccettabile. Noah Cross, il personaggio di John Huston, è il potere smisurato che tutto muove ed infrange, contraddittorio nel suo bisogno d’amore che arriva fino all’incesto e nella repressione che si manifesta nella violenza senza limiti, arrivando a mettere sul lastrico centinaia di contadini. Noah Cross è Dio.
L’acqua è l’oggetto della speculazione ma in fondo è l’elemento naturale di questa città/acquario dove gli uomini respirano a malapena perché l’acqua è fonte di vita e benessere sociale ma anche latrice di morte e strumento di oppressione. Il pessimismo universale del film si fa così da politico ad esistenziale e la corruzione dell’anima una volta scoperta non può essere vinta. E non ci resta così che rimanere assetati e farci inghiottire da Chinatown, quella Chinatown a sua volta inghiottita dal deserto, un deserto rarefatto, ipnotico, infinito.

Chinatown (id., Usa 1974), Roman Polanski

3rd avenue

Ri-conoscendosi

3.1 Insieme a te non ci sto più

No, non rivedrò il cinema di Moretti per parlare del cinema di Moretti. Con tutto che mi tremano i polsi ad affrontare questa prova di incoscienza ed imprudenza in un terreno impervio quale quello dell’antiunanimismo italiota. In fondo non leggo manco la Repubblica. Però mi solleva Milan Kundera. E questa è un’urgenza insostenibile. Da molti anni. Avevo anche pensato tempo fa ad un corto-medio-lungo-(boh?)metraggio, “La via Sacher” (boh?), in cui ad uno pseudo-Moretti in vespa si opponevano di volta in volta tutti gli avversari, i personaggi denigrati senza replica, i fantasmi da lui temuti, il tutto in quello stile fanta-splatter da lui tanto amato e soprattutto da lui tanto compreso nel senso più profondo. Dopo questi avventurosi pensieri in libera uscita forse sentirò una maggiore spinta per realizzarlo. Non rivedrò il suo cinema, forse mai più, nonostante ad ogni nuova uscita ero così impaziente e curioso, nonostante abbia partecipato a serate-Moretti tra amici avvertendone il fascino perverso e maniacale. Ma non lo rivedrò in questa circostanza perché talmente intrusivo, talmente debordante, magistrale ed autorevole che non posso non fare i conti solo ed esclusivamente con le mie scorie, quelle che non mi sono scivolate troppo lontano dopo averne tentato la metabolizzazione. Con i residui da me setacciati del suo mondo, della sua figura, dei suoi film, delle sue ossessioni, che poi è la stessa cosa.
La vedo presuntuosamente come la miglior cartina di tornasole per testare il conformismo critico italiano. Troppo facile prendersela con tutto il resto, anche se spesso in modo sacrosanto. Se c’è un limite sottinteso di intoccabilità, di inattaccabilità, un totem, beh allora qualcosa proprio non va. Questo in tal contesto è importante. Il resto è noia, aria, fuoco sterilizzante. Ma non cerco polemiche ad personam anche se il confine è sottilissimo. Voglio omaggiare ciò che poteva essere e non è stato, ciò che dovrebbe essere e non sarà, forse anche suo malgrado. Ritengo che Moretti soffra da sempre la folgorante idolatrazione di questa benedetta/maledetta fettona del belpaese anche se allo stesso tempo ne subisca il richiamo e si senta come rassicurato, rafforzato. Forse preferirebbe un’Italia più alla francese, più unanime e riconciliata, che protegga i suoi talenti amandoli senza soffocarli, dandone per scontata la presenza. Sarebbe tutto più semplice per lui. Non si costringerebbe a quelle bordate politiche che ogni tanto ingenuamente spara credendo di raccogliere un sentire comune ma che sono solo accuse pruriginose di superficie e non incidono mai le radici del problema. Cos’è rimasto del ragazzo che riportava a casa nella borsa della pallanuoto le pizze di “Io sono un autarchico” senza immaginarsi minimamente il clamore che avrebbe suscitato la critica all’indomani della prima al Politecnico? Non è retorica, è che vedo quel giorno come uno spartiacque. Si è trasformato in un sol colpo nel giovane arrabbiato, eretico e moderno (così almeno si atteggiava nel noto confronto televisivo con Monicelli) che aveva insiti nei propri geni la saggezza del guru salvatore del cinema italiano perché forse sapeva meglio leggere la società e allora non si sa mai, meglio che restare spiazzati… Un piccolo vecchio, precoce ma emergente, che non aveva bisogno di maturare in quanto il suo percorso, pur bruciante, era già compiuto. Moretti si è così trovato contemporaneamente di fronte ad una discesa e ad una salita ripidissime. In un periodo di riflusso e transizione con i grandi vecchi in declino, o meglio avvertiti come tali, con la crisi economica e ideale di una cinematografia ormai sclerotica, burocratizzata e clientelare ha saputo incunearsi. Furbescamente certo, con gli appoggi di ambienti decisivi, con svariate strizzatine d’occhio, quelle che ben simulando ancora continua a fare, fingendo di andare controvento, in realtà sempre fiutando arie e tendenze e delimitando scrupolosamente il terreno del politically enough incorrect. Perché anche da uno scranno bisogna stare attenti. Alla critica che lo ha sempre vezzeggiato per timore di uno che il piedistallo lo ha sempre preteso pur col suo snob divistico. A certa sociologia di sinistra o presunta tale che sente l’esigenza di ritrovarsi in una continua comunione tribale ma senza sporcarsi le mani e compromettere quelle tre o quattro posizioni acquisite di potere, di retorica, di moralismo manicheo. Ma se già in un paese che non ha saputo formare un’industria cinematografica degna di questo nome il talento quando c’è deve essere spremuto fino al midollo secula seculorum per poi diventare fragile architrave del sistema, anche quando ha ormai ben poco da dire, figurarsi ad un guru come Moretti quante e quali responsabilità gravino sulle spalle. Buon per lui che in gran parte non ne venga verificato l’esercizio.
Mi sembra che soffra terribilmente di carenza di idee. Dal suo punto di vista, certo. E da quello di certa critica becera che scorge la forza del suo cinema nella sceneggiatura – a proposito, chi ha avuto la brillante idea di piazzare lo studio vicino all’appartamento ne “La stanza del figlio”? E’ così che si rende in modo serio e non spettacolare, non “all’americana” (?!!) la figura dello psicanalista?- quando solo i Rulli e i Petraglia ne hanno modificato in parte la struttura. Perché in fondo si tratta sempre dello stesso film e ogni volta il parto è pesante e sofferto, lui che con quell’aura leggera, francese, nouvelle-vague di ritorno dovrebbe praticare invece agilità e freschezza produttiva. Da “Palombella rossa” in poi ciò è molto evidente. Non c’è più bisogno della mediazione di Michele Apicella, del regista, del professore, del prete, del deputato, c’è l’uomo o forse la sua ombra. E in “Aprile” ce lo confessa: l’empassi creativa c’è stata e fortissima. Il musical mancato sul pasticciere trotskjsta non è divertissement, è sintomo di brace che cova sotto la cenere ma non riesce, non deve prendere il sopravvento. Perché così agirebbe il vero disorientamento, vero perché partirebbe da quel Moretti stesso che per paura o per calcolo cerca di combattere questa eventualità. Ma lui con quella faccia, con quella voce può fare e dire ciò che vuole. Il musical quando non la commedia, leggera, macabra o rosa che sia sarebbe il suo territorio ideale. Non il fantasma di Godard , di Rivette o di Cassavetes, non la severità che non smette di far trapelare per meglio spacciarla. Non l’austerità d’accatto di uno stile/non stile timido ed essenziale, forzosamente doloroso e puntuto, a strappi quando questi strappi sono avvertiti come “dogmatici”, necessari. Il destino del cinema italiano cambierebbe davvero se solo vincesse i suoi pregiudizi non solo ideologici e riconoscesse pienamente come numi tutelari i Kelly, i Minnelli, i Donen ma anche i Fellini, gli Allen e perfino i Benigni. Sì Benigni, perchè Moretti avrebbe dovuto essere sempre accostato ai nuovi comici-autori emersi negli anni ’80, quegli attori talentuosi se non geniali, spesso registi limitati come Nuti, Verdone, Troisi, Nichetti, che se avessero avuto l’umiltà di affidarsi a demiurghi capaci avrebbero ottenuto risultati straordinari. Non associamo sempre al periodo autarchico Moretti? Non lo sentiamo come modello insuperato di comicità se non in quei momenti spiazzanti in cui il nostro vira improvvisamente verso il grottesco o verso il musical? Cosa avrebbero potuto compiere quel corpo e quella voce unici, gli unici ad avere la forza iconica, non morale, di contrastare Hollywood, una volta liberati? Gonfiando a dismisura le sue ossessioni, interessanti, ammalianti, il vero collante del suo percorso, dandole un corpo pienamente e finalmente fascinoso. Liberando il volto/suono Moretti da un linguaggio bloccato e timoroso che soppesa ogni parola straniandola brechtianamente in continue battute false, false perché simulate come vere ed immediate, verniciate d’autobiografismo. Un gioco al massacro che per combattere il vuoto esistenziale e gli stereotipi interpersonali vi oppone solo il senso della propria sconfitta, della propria irrisolta difficoltà ad una comunicazione piena e bilaterale oltre che ad un impegno sociale rigoroso e tollerante. E’ curioso come in Italia questa fuga dal politico sia ogni volta attesa come un resoconto generazionale, un punto e a capo da cui ripartire. Liberiamo allora quel lupo mannaro, quell’umorismo di gioventù di cui si vuol fare reliquia, quel surrealismo, quei colori pop (Lanci, direttore della fotografia: “Pop? Nanni mi ha sempre e solo chiesto una fotografia il più possibile naturale!”), liberiamo le denunce lucide e mirate lanciate contro certo baronato pressappochista della sanità nello straordinario “Medici”, il capitolo meno citato, il meno esaltato, con quello straniamento finalmente omogeneo alla persona. Liberiamolo o accontentiamoci di questo nostro cinema che, a parte nobili eccezioni come Corsicato, Ciprì e Maresco, De Bernardi (i primi nomi apparsi istintivamente), continua ad essere, per dirla alla Paolo Bertetto, da più di 20 anni il più brutto del mondo. Nonostante questo vostro Moretti.

3.2 AMORE è CONOSCENZA

Abbiamo sentito parlare su questo film di squilibri e non rispetto del genere, thriller nella questione, come se questo non fosse il primo di Weir interamente prodotto dagli Usa, ove oltretutto è ambientato, come se il regista australiano non avesse mai diretto “L’ultima onda” o “Un anno vissuto pericolosamente”, come se non avesse mai fatto del confronto/scontro tra culture opposte, tra Ragione e Natura, tra Civilta’ e Utopia il fulcro del suo discorso narrativo. Avremmo forse preferito un talento all’interno dei rassicuranti confini della tradizione hollywoodiana che avrebbe magari, come si usa dire, minato dall’interno visto che l’operazione in passato è riuscita ad altri autori extra-americani? Personalmente preferiamo tenerci tutti i presunti squilibri perché li troviamo comunque sinceri e vitali. Sicuramente “Witness” non è un’opera del tutto riuscita ma se e quando funziona lo fa proprio in virtù dell’evidenza delle sue discrepanze. Le dicotomie che attraversano la storia, come tutto il cinema di Weir, si riflettono anche nello stile del film che nella sua asciuttezza d’insieme sa farsi ora classico thriller americano con movenze, dinamiche e sviluppi caratteristici, ora epicamente fordiano (Nomen est omen? L’omonimia dell’attore protagonista sarà anche casuale ma l’indugiare sullo stemma della macchina dei tre “cattivi” che in fondo vengono a porre fine alla convivenza di Book nella comunità? Ma…) nella sua epica e imponente ruralità, pur magica.
E’ proprio questo tocco magico il valore aggiunto di Weir, questo richiamo profondo di qualcosa di primordiale, ancestrale che l’uomo civilizzato avverte ma non riesce a gestire come se la Natura lo chiamasse da lontano ad una prospettiva di pace e benessere ma no, l’armonia non è mai possibile perché la sua natura è ormai corrotta e perderla significherebbe perdere tutto. Questa dimensione in fondo la si riconosce fin dall’inizio, in quella che la musica new-age di Maurice Jarre ci aiuta a definire la “sinfonia della morte”, quella morte che sola può avvicinare persone così diverse. Dal funerale degli amish al vento che aleggia minaccioso sui campi alla statua nella stazione tutto ne è presagio. E la stasi del tempo nella comunità ne è la sublimazione. Il tempo riprenderà poi a scorrere per Book solo dopo le “morti” necessarie sul campo.
Book. Libro. Cultura. Conoscenza. Per Weir solo con la vera conoscenza e quindi con la “testimonianza” è possibile un incontro tra culture diverse. Samuel è testimone curioso del magico ma violento mondo moderno, John lo è di quello repressivo ma coeso degli amish. La comunità offre certo un dato di comoda utopia ma il confronto non può venir ridotto alle tanto deprecate e pur inevitabili banalizzazioni di situazioni quotidiane inusuali per un americano comune, situazioni che virano improvvisamente il tono del film verso la commedia (altro disorientamento?), terreno nel quale peraltro il sensibilissimo Harrison Ford mostra di saper dare pregevole prova. E’ meno in superficie lo scambio delle diversità. Chi è in fondo John Book se non un individualista? E’ un uomo di provata onestà e rettitudine che lavora sì per la legge ma la cui sicurezza lo porta anche a scavalcarla se necessario perché lui ritiene sia giusto fare così. Lui sa di aver ragione. Non ha messo su famiglia perché pur lavorando per far applicare le leggi rifiuta il conformismo che limiterebbe la sua autonomia e non, come sostiene la sorella, perché non vuole assumersi responsabilità. Gli amish apprenderanno da lui proprio questo spirito molto occidentale di libera iniziativa e i germi dell’individualismo entreranno nella loro roccaforte di immobilismo. La loro nonviolenza da passiva si farà attiva, si farà ingerenza. Weir parteggia chiaramente per loro ed infatti sarà la reazione della comunità a sconfiggere il Male e a salvare Book. L’idea della campana è la messa in pratica della lezione dell’intraprendente americano, un americano però trasformato dalla “redenzione” nel villaggio. Book infatti non riscopre tanto il valore della sobrietà o della semplicità quanto quello della solidarietà e della convenzione sociale, valori così forti negli amish da affascinarlo. Convenzioni però così vincolanti da rendere impraticabile il terreno dell’amore con Rachel, idillio che lo cattura per un attimo fino a volerne fissare il tempo. Ma l’armonia è appunto impossibile e per un amore così l’unico luogo di azione è quello del sogno, dell’utopia, luogo che il regista conosce molto bene. “Witness-Il testimone” è un film che si inserisce nel filone terzomondista di riscoperta degli altri mondi ora poveri, ora misteriosi, ora conflittuali, filone tanto in voga negli anni ottanta e di cui Weir è stato un alfiere. Riusciremo un giorno a rivalutare questo tanto vituperato decennio?

Witness-Il testimone (Witness, Usa 1985), Peter Weir

3.3 Arrestiamo il cinema!

Auspichiamo, teorizziamo, marciamo insieme verso un cinema pienamente gandhiano! Fuor di kolossal vogliamo un cinema che superi la propria violenza autoriale della riconoscibilità piena e immutabile, che cerchi nell’altro un dialogo aperto e tollerante, che non alzi le mani dell’indifferenza ma che le porga quelle mani, per stringerle, per conoscere e ri-conoscere, per schierarsi, per cambiare un destino che può sembrare infausto. Anche se quelle mani possono essere ammanettate perché scandalose. Scandalose e quindi evidentemente necessarie.

Gandhi (id., Gb 1982), Richard Attenborough
4th avenue

Questo destino

4.1 Destino

“Destino”, “La stanca morte”, “Der mude Tod”. Quale che sia il titolo che si voglia accreditare all’opera l’evidenza di una natura altamente simbolica resta. Oltre alla Morte anche Amore, Vita, Destino, Tempo, Mondo diventano personaggi accreditati, quasi chiamati per nome, in questa ballata/quadro in fondo tra le cose meno ricordate dell’espressionismo e di Lang stesso. Simboli ingenui, primitivi ma densi di valore, come dire, trans-umano. Oltre l’uomo attraverso l’uomo. E attraverso il mondo. Simboli che funzionano proprio per la loro forza nel proporsi come tali. Il tutto in un corredo iconografico raffinato e di una multireferenza culturale simile per l’epoca a quella del Dracula coppoliano. Un corredo che fornisce alla visione quell’aura di magia stupefacente, da lanterna magica, come un treno dei fratelli Lumière che lentamente esce dal fotogramma, come un Meliès che commosso scompare per sempre dallo schermo e dal pubblico che lo ama in uno dei suoi mirabolanti trucchi. Come i due amanti che cadenzando i passi entrano in quell’iride mortale comune a tutti, universale, terribilmente affascinante come questo film.

4.2 Pierino, la Peste

Diffidare delle imitazioni. Non intendiamo quelle dei Pierini che seguirono a ruota il successo clamoroso di Vitali e di cui forse qualcuno un giorno dovrebbe interpretare la diversa resa al botteghino. Perché un campione d’incassi può essere attaccato, demonizzato, sbeffeggiato ma deve essere capito. Sempre. C’è un’attrazione fatale, inconscia e magica che non deve essere sottesa perché spesso difficile da cogliere. Chi non vuole neanche provarci fa solo esercizio di pigrizia volgare, la stessa contestata da anni a questi film. Film nati anche perché qualcuno ne ha creato i presupposti. No, l’imitazione di cui diffidare è quella di una riabilitazione. La boutade spuntata la scorsa estate come fosse un hit da ballare fugacemente in spiaggia. La riabilitazione di Alvaro Vitali, per tutti sempre e solo Pierino, il maledetto, il repellente, l’appestato. Si vorrebbe confezionare una di quelle rivisitazioni pelose che ciclicamente ci infestano. Si ignora, si ridicolizza, si sottovaluta poi a distanza di anni ci si ravvede magari sotto lo stimolo della critica francese e si provvede alla beatificazione o quanto meno si ritira la scomunica. Così Totò, Germi, Freda, Bava, Cottafavi, Villaggio, Matarazzo, Bragaglia. Perfino Banfi, la Fenech, Franco e Ciccio sono ormai simpatici ed innocui vicini di casa. I Vanzina, con qualche ragione, sono in lista d’attesa. La situazione di Vitali è completamente diversa. Lui è un ergastolano arrestato ingiustamente, esiliato, sterilizzato e poi graziato. Lui, non il suo cinema. Cinema dannatamente predestinato, predestinatamene dannato. Cinema. Difeso da quei poveri disgraziati di Amarcord, gli unici che in Italia facciano, a torto o a ragione, una politica cinematografica degna di questo nome, coraggiosa , coerente, incisiva. L’uomo-Pierino ha potuto semplicemente beneficiare del diritto alla cittadinanza ma è stato costretto a pentirsi, a cercare giustificazioni, a confessare di aver sbagliato. Questa tendenza era già in nuce nella fase immediatamente successiva, quella dei “Gian Burrasca” e dei “Giggi il bullo”. In fondo già in “Pierino medico della Saub” c’è un senso di disagio, un bisogno di rifugio in schemi più farseschi e popolari, se non da commedia all’italiana, nella vana ricerca di nobilitazioni impossibili.
Per un discreto periodo è stato il grande alibi della crisi del cinema italiano. Anche il più sfigato ed inetto cineasta poteva nascondersi dietro il suo grembiule. “Ma se in questo paese si fanno i film su Pierino allora non c’è più credibilità, non c’è più speranza!” Tipico riflesso di chi confonde l’effetto con la causa. Di chi teme la gente perché non sa capirla. E allora il rancore e l’odio sono inevitabili. E allora si preferisce la tabula rasa alla maceria. Dimenticando l’ultima maschera del nostro cinema, insieme all’interessante terrunciello di Abatantuono (a quando la riesumazione?), dopo averla usata per demolire l’esistente. Dopo anni di minimalismo, di “autorialismo”, di neo-neo-neorealismo, di rievocazioni di glorie passate ancora fatichiamo a risalire la china. Ma qual è il reato inconfessabile di Pierino? Perché ci sentiamo di doverlo proteggere come un qualsiasi perseguitato politico?
Vitali è una delle grandi sconfitte dei registi italiani, incapaci sia di valorizzarne la carica di aggressività mostruosa sia di togliergli di dosso quella maschera di ferro sempre più ignominiosa, infamante, opprimente. Creatura liberata al cinema dall’estro intuitivo e visionario di Fellini, già valente spalla di Montagnani e Banfi in decine di film, col suo corpo punk, con la sua oscena trivialità, con la sua irriguardosa e fracassona giocosità poteva essere il degno referente italiano di John Belushi avendo i mezzi per seguirne parallelamente la stessa crescita, dai territori del nonsense, dal nostro appena sfiorati, fino alla commedia sofisticata. I suoi Pierini sono invece un trait d’union tra le commedie pecorecce da lui stesso interpretate e l’esplosione del fenomeno Vanzina. Ma il legame al primo filone, quel filone ora timidamente rivalutato, è molto esile, mancandovi sia una certa sporcizia visiva sia quei pruriti fondamentali che qui sono invece marginali, quasi innocenti. Ben diverso il salto in avanti verso gli anni ottanta. Gli anni ottanta –altro strano essere, orripilante e disumano per molti. Ecco lo scherzo imperdonabile del monellaccio, il più riuscito, il più fragoroso. La bomba situazionista. Non a caso amata da Freccero, l’ambasciatore italiano, con Ghezzi, di Debord. Pierino espone la sua merce scadente ma lo fa col massimo della consapevolezza possibile, è forte la coscienza critica del suo status. Se così non fosse lo snob avrebbe potuto cavarsela con un semplice moto di compassione, un buffetto sulle spalle e via. Ma Pierino sa, sa di essere disgustoso e in continuazione si pone come specchio di sé col suo costume colorato indimenticabilmente pop (un costume che sarà superato solo dal geniale Gabibbo di Ricci), con i suoi fischiettii, con le sue movenze scanzonate e soprattutto con la sua risata. Una risata agghiacciante e diabolica che ripetutamente contrassegna gags, lazzi, battutacce, anche le più sceme e trascinate. E’ questo distacco, questo disincanto a farne il padre fondatore del cinema-prodotto vanziniano, quel cinema che come pochi però ha segnato un’epoca. E del Drive-in, dell’arboriana “Indietro tutta”, di Blob, di Striscia la notizia, in fondo di tutta la televisione commerciale. Di tutti quei contesti che insomma ricreavano il senso ultimo delle cose esibite. Ma il didascalismo pedante e tronfio della nostra “intelligencija” non poteva tollerare un simile abuso. E allora dagli all’untore. La violenza dei loro attacchi era direttamente proporzionale all’intensità di quella risata. E dietro quella risata c’era tutta la spazzatura dell’epoca, gli anni di piombo, la P2, le bombe, l’unità nazionale, la legge Reale, Pecchioli, Cossiga, Giorgiana Masi, il caso Moro, il caso Cirillo e poi e poi… Quella risata era solo una botola dove poter fuggire in un’allucinazione perversa come un trip ma rigenerante come uno sfogo di rabbia cieca. Sicuramente si raggiungeva un modello di facilità, di comodità, molto italiano. Ma fino ad un certo punto. Stiamo attenti a classificare Pierino come un volgare ed indolente ribelle fuori dagli schemi. Innanzitutto lui degli schemi ha un bisogno innato che siano la scuola, la famiglia, la città. Anziché l’anarchia cerca però una sua forma di libertà giocando sul filo di ciò che queste istituzioni gli consentono. O quasi, sforando sempre un po’. Ma restandone sempre interdipendente perché vuol fare emergere e mostrare agli altri il non consentito, il censurato, a volte solo per ripicca. E’ questa la sua funzione, è per questo che la società avrà sempre bisogno di lui, anche solo per sentire una pernacchia o un aneddoto irraccontabile. In queste cine-storielle che comunque hanno sempre un filo narrativo al di là dell’origine barzellettistica Pierino riesce sempre ad avere la meglio, apparentemente visto che poi non trarrà giovamento dalle sue vittorie restando emarginato ed inculturato. Ma in fondo è il più intelligente di tutti, dimostrando col suo intuito vivace di saper convertire ogni situazione, ogni parola, ogni spunto in una farsa immaginandone sempre di diverse. In ciò è positivo. In ciò resterà imprigionato. In quelle musichette accattivanti, anello non secondario di una manovra d’avvolgimento perfetta. In quei bozzetti dei titoli di testa che lo accostano a Satanik, con Kriminal il primo fumetto nero italiano, altro reietto del nostro passato. No, caro Pierino, proprio non ci vergogniamo ad ospitarti nel nostro immaginario.

Pierino contro tutti (Italia 1981), Marino Girolami
Pierino colpisce ancora (Italia 1982), Marino Girolami

4.3 A question of (that? what?) time

Ma nel film di Mary Harron c’è veramente questa manifesta demolizione degli anni ’80, dello yuppismo, del reaganismo e del suo liberismo antilibertario? Non se ne vuol solo rappresentare criticamente il declino sofferto e scintillante degli ultimi anni? O è un ribollire di fermenti che esploderanno col crollo del muro di Berlino per poi farsi acquisiti e perfettibili? O si entra solo in un’illusione repressa e ossessiva, ferita e sanguinolenta che non vuole più essere fluido plasma che scorre nascosto? Non è accurata e puntigliosa descrizione, oltre che delle manie di un’epoca, delle eterne manie di tutti noi, del nostro fastidio per un mondo umano non pienamente controllabile? Ai poster l’ardua sentenza!

American Psycho (id., Usa 2000), Mary Harron
5th avenue

Luce nera

5.1 Orgia di cristallo

Idolatrato dai giapponesi, salutato dai “Cahiers du Cinèma” (i Cahiers, i Cahiers… ma contano solo quando pare a voi?) come la sola risposta europea all’underground e al new cinema americano, premiato polemicamente in varie giurie a scapito di nomi altisonanti, la cinematografia di Carmelo Bene resta intollerabile, non offre appigli a possibili fughe mondane. E allora non potendo ghettizzarlo nel cinema sperimentale (i conti non tornerebbero…) si è preferito da sempre considerarlo un corpo estraneo, un oggetto di culto per appassionati eccentrici. Certo il riflesso è comprensibile visti gli sfracelli che questa mina vagante della nostra cultura ha provocato e provocherebbe, quanti giganti derisi, quanti moloc autoriali sbriciolati, quanti tromboni si dedicherebbero ad altro finalmente! Per questo la sua visione andrebbe un po’ imposta dai lumi del potere, come si fa da sempre coi classici del neorealismo. Il cinema in Bene è “mancato” perché solo così ha potuto “crudelmente” distruggerlo così come ha sempre mancato il teatro. Sa infatti che il cinema è altro che una replica virtuale del già espresso, altro che pattumiera di altre arti convocate in una presunta settima, altro che fallimento e forfait del fermo-immagine che non cerca la differenza concettuale dall’attuale cronologico. Non ha avuto bisogno di effettacci drammaturgici alla Von Trier per imporre le sue idee rivoluzionarie, non rivoluzioniste. I suoi film sono di per sé scandalo. Odiati, fastidiosi, clamorosi. Ma senza violenze, idioti, fellatio, masturbazioni di sorta. Prendiamo ad esempio “Salomè”. La decapitazione del Battista è più volte allusa nel reiterato taglio del cocomero ma non si vede. La sola idea di un morto che possa risuscitare desta ribrezzo, è rifiutata. La paura non è indotta, è interna al film, la figura di Erode Antipa è tormentata dai segni, dai presagi della sconfitta. E il possesso di Salomè come ogni contatto umano è caricatura del possesso. Possesso che non può che manifestarsi in un gioco di specchi che a loro volta riflettono altri specchi, altre immagini mortali. Possesso insostenibile che non può che finire con la solarizzazione di un volto sfogliato, pura luce/voce straziata e urlante, in realtà uno dei tanti, infiniti strati di una serie di maschere. E questo farsi strappar via la pelle è in fondo metafora del cinema beniano che la pellicola ha maltrattato, calpestato, bruciacchiato letteralmente. Perché la pellicola è pelle, è derma trasparente che deve lasciar intravedere gli organi, l’organico. Anche se ciò può essere accecante. “Cinema è quando gli occhi miei si chiudono solo a guardarmi dentro” (C.B.). Non c’è immagine bella o brutta, artistica o reale ma solo quella il più possibile cieca. La visibilità dell’immagine viene così disattualizzata, privata della sua virtualità, non morta e trascorsa ma differente e assente. E’ “un’immagine-cristallo” (Deleuze), è il tempo che si scinde continuamente in presente –e passato riflettendosi. “Un’immagine-ricordo” (Bergson) che non è un nuovo presente rispetto ad una passata ma un attuale presente di cui è il passato. Il tempo-Kronos non cronologico è la vera soggettività e la vera virtualità, noi siamo solo interni al tempo. “L’attuale è sempre oggettivo ma il virtuale è soggettivo…” (C.B.)
Mc Luhan avrebbe definito il film “Salomè” sicuramente “caldo” come tutto il media-cinema ma soprattutto “surriscaldato”. L’opera infatti pur girata con quattro soldi eccede la visione. Vorremmo continuamente interromperne lo scorrimento per cogliere un dettaglio, un’informazione, una parola sovrapposta, un momento, un’idea, un fantasma di passaggio. Sensazione che percepiamo spesso davanti ai film (last but not least l’ultimo Luhrmann, “Moulin Rouge”, inevitabilmente) ma neanche col bisturi chirurgico da obitorio, videotape o DVD che sia, riusciremo mai a catturare pienamente quel qualcosa pur fugace che ci pareva così lampante, immediato appunto. Dovremo per forza di cose ricominciare per farci trovare meno impreparati e poi forse coglierne un po’ di più o fallire di nuovo. Perché il film, i film, il cinema (il mondo tutto?) sono un continuo nastro di Mobius senza inizio né fine. Si rifà, si riguarda, si riscrive, si rigira. E con “Salomè” sembra di essere dentro una forma-pensiero in fieri, “ulissiana”, immediatamente autofilmantesi, senza l’ombra, quell’ombra sciaguratamente già espressa quindi inutile, di una testimonianza soggettiva. Cinema dell’atto, senza azione, senza traiettoria, istantaneo nel suo divenire. Lo sguardo non è avvertito se non come falso, sempre filtrato da specchi, schermi, vetri. Ma non è neanche uno sguardo guardato. Caleidoscopio di luce e suono, quest’urlo abbacinante, questa supernova di voci, musiche e rumori spezzati, contraddetti e rimasticati nella sua caoticità classica offre spiragli di accessibilità pigra. Lo fa in virtù della clamorosa anticipazione dell’estetica del videoclip. Vedere per credere le oltre 4.500 inquadrature (!) che compongono questa serie discontinua e ricoordinata di immagini-specchio, immagini-lustrino, immagini-gioiello (“Diamonds are the best friends…”). In questa reggia acquatica ammiriamo i cromatismi schifaniani del dècor, le palme, questi oggetti illuminati e rifrangenti realizzati con l’impiego dello scotch-light della 3-M il che implicava la mobilità del parco lampade (un’impresa in cui gli americani avevano fallito, pare). E i costumi. E la macchina da presa che manca continuamente i corpi, il set, il corpo-film destabilizzando con panoramiche agitate che non mostrano mai tutto in un montaggio nervoso per di più privo di raccordi. E la voce straordinaria di Bene il cui corpo attoriale visivamente frantumato lo è ancor di più nelle tante variazioni tonali sovrapposte alle altre voci monocorde. Film anche e soprattutto di voci il suo (quante tesi di laurea meriterebbe la rumoristica del suo cinema?). E noi che non sappiamo se innamorarci di più del Cristo-Vampiro che prepara rituali orgiastici intonando “Vipera” o del Cristo che aspira ad una autocrocifissione impossibile. L’uno raffigurante lo sciacallaggio sulla sua figura operata dal cattolicesimo, l’altro la sua irrinunciabile umanità. Un Cristo-Cristallo direi, appunto. Appunto. Ed esiste! Più di Dio e del Papa, vero Maestro?

Salomè (Italia 1972), Carmelo Bene

5.2 Tradire, non tradire: ritorno al
presente – L’insostenibile leggerezza
dell’essere

A quanti e quali giochi di parole più o meno banali, più o meno divertenti, si è prestato questo titolo! Non ci vogliamo esimere dal parteciparvi e spariamo subito la nostra goliardata. Pum! L’insostenibile pesantezza dell’essere Philip Kaufman! Non è entusiasmante come trovata ma a volte bisogna rispondere alle aggressioni con le stesse armi di chi ci colpisce altrimenti si corre il rischio di riconoscerne la legittimità un po’ come fecero i molti cittadini cecoslovacchi descritti da Kundera col regime sovietico. Noi non vogliamo assolutamente scendere sul terreno dell’autore e anzi riteniamo utile ed educativo che quel suo finto stile che ci propina con malcelata eleganza di maniera si ritorca contro di lui facendolo specchiare nella sua immagine di DorianGray/invecchiato/sfigurato/putrescente di un cinema letterario ormai sepolto perché di fatto mai esistito. Kaufman si incontra con la letteratura europea e ne resta tramortito, la riverisce genuflettendosi ma non le rende omaggio adeguato perché ipocritamente finge e vuole dare ad intendere, in ciò insediandosi in una tradizione atavica, che nella trasposizione cinematografica di un romanzo il cinema non serva, sia pletorico. Buon per lui che la macchina/cinema possieda quel misterioso meccanismo che riesce a rendere cinematografico ciò che non ha il minimo valore genetico per esservi iscritto. E’ per questo che comunque il film rimarrà nel nostro immaginario, grazie a questo tradimento instaurerà un braccio di ferro con la memoria del capolavoro di Kundera e ne uscirà clamorosamente vincitore perché il cinema/occhio, vincerà sempre sulla scrittura come ci ha indicato magistralmente Kubrick nel suo “Shining”. Kaufman non ha certo l’overlook ma sa che un’opera-zione del genere può essere sufficiente all’automatismo vincente di Hollywood. E’ per questo che rivediamo sempre volentieri i vecchi adattamenti degli anni dieci, venti e trenta quando l’impianto di base teatrale o letterario era ingombrante, accademico, fortissimo. Ma lì c’era un’ingenuità leggera e seducente che certo non ritroviamo nello scaltro e navigato regista di Chicago. Il quale infatti dà il meglio di sè in situazioni al 100% americane e al 100% aderenti ai generi archetipici vuoi le risse metropolitane di “The wanderers” vuoi la saga astronautica di “Uomini veri” vuoi la rielaborazione demistificante di un mito ne “ La banda di Jesse James” ma mostra tutti i suoi limiti se messo a confronto con culture a lui lontane come la figura di Miller in “Henry & June”, dove preme ancor più che con Kundera l’acceleratore su un erotismo frenetico di facciata, o come la figura del giapponese avido e cinico di “Sol levante”, dal romanzo di Michael Chricton, dove spreca superficialmente il confronto con un Oriente che tanto ha angosciato il subconscio occidentale.
“L’insostenibile leggerezza dell’essere” rappresenta un’altra occasione d’oro gettata alle ortiche in quel modo così sensazionale da farci quasi innamorare di Kaufman per la sua dissolutezza. La manovra d’avvolgimento era stata studiata a puntino, i collaboratori scelti garantivano sulla carta qualità in abbondanza. Lui spreca ogni risorsa. Pur rielaborando in modo non calligrafico il romanzo Carriere non lo tradisce così da lasciare tutta la prolissità e sentenziosità possibile , manca il non detto e il non visto che è amore per il cinema mentre il suo contrario non è generosità ma snobismo. Ci chiediamo umilmente se il valore di questo sceneggiatore non sia stato sopravvalutato dal fatto di aver dato il suo apporto, che a questo punto ridimensionerei, a film di un genio quale Luis Bunuel. La fotografia di Nykvist è troppo giusta, troppo plumbea, troppo mitteleuropea e il montaggio che sembra scarno in realtà è solo incerto. Gli attori scelti sono azzeccati e infatti nonostante tutto ne continueremo a portare il ricordo. Ma Daniel Day-Lewis, icona del cinema romanzesco europeo, funziona solo di per sé e non aiuta il personaggio nel percorso necessario alla sua metamorfosi interiore. Juliette Binoche non ha mai destato così poco timore, il suo distacco abituale stavolta è ridotto e possiamo avvicinarci a lei con amore. La carenza autoriale di Kaufman le ha giovato ma fino a che punto possiamo ritenerlo un merito? Lena Olin disegna con pochi e sensibili tocchi la libertà di Sabina ma il suo personaggio è troppo chiave per non meritare una estensione smisurata, assieme alla figura di Franz, simile a quella operata da Stoppard con i suoi Rosencratz e Guildstern. Se ci soffermiamo tanto sugli aspetti funzionali è perché manca quel collante che tutto dovrebbe unire in un sol corpo.
Kaufman si limita ad illustrare per immagini ma il suo didascalismo è inutile anche per chi non ha letto il romanzo. Non vuole e non sa cogliere il mito dell’eterno ritorno alla base di tutte le dinamiche della narrazione, la vita che non torna mai perché è una linea retta inarrestabile e continua, la fugacità di ogni nostro gesto così come della storia tutta, la leggerezza di ciò che è già morto sul nascere una volta per sempre e riesce a perdere ogni valore di partenza nell’ombra del ricordo di qualcosa che non riavremo più. Un mito di negazione. Folle se vissuto fino in fondo. Ma di negazione. E dov’è la negazione nella regia di Kaufman così studiata e reiterata? Avremmo avuto forse bisogno di un approccio godardiano con i ciak esibiti oppure mai ripetuti perché irripetibili come la nostra vita, con gli attori, pur divi, che improvvisano su di un canovaccio appena abbozzato anche se ispirato a Kundera? Forse sì. Troviamo solo tre momenti di negazione nel film. Uno è la sequenza tanto apprezzata dell’occupazione sovietica in cui il regista con mestiere alterna documentarismo a finzione, linguaggi a linguaggi. Non è nuovo a queste operazioni ma qui appare come una nota a margine la cui dissonanza colpisce in modo molto formalistico. Vi è poi una frattura temporale, un taglio sull’asse imprevisto nella scena dell’amplesso tra Tereza e l’ingegnere seduttore. Tereza sta cercando una via d’uscita dal labirinto, non riesce ad accettare la natura di Tomas, la sua futile visione di un rapporto che lo porta ad amarla pur non rinunciando alle sue scorribande avventurose. Sa di essere diventata un peso per lui così vuole indagare, misurarsi con la civetteria esponendosi. Lo fa però in una maniera troppo pesante, forzata, eccessiva. Così anziché far apparire l’intimità sessuale come una possibilità si affretta a promettere ciò che poi è reticente a mantenere e la sua resistenza apparirà cattiveria. La frattura è quindi per noi ingiustificata rispetto alle altre scene di sesso perché era proprio questa l’unica ad aver bisogno di un occhio attento e costante che mostrasse la sofferenza di quei momenti e il conflitto tra anima e corpo in Tereza. L’ultima negazione è autenticamente cinematografica (finalmente!) e arriva in chiusura di film ma non riesce a rivalutarlo. Tomas e Tereza sono morti in un incidente stradale e Sabina ormai esule ne riceve la notizia tramite una lettera. Ne segue un bellissimo flashback che non è un vero flashback ma può essere una ricostruzione o solo una manifestazione onirica del pensiero. La coppia in camion che sulla strada incontra la luce, il nulla, è qualcosa di infinitamente leggero che come la morte nel momento in cui arriva non si può riconoscere perché è già passata, già morta.
La campagna in fondo era già un’idea di aldilà, di paradiso in cui Tereza e Tomas trovano una loro felicità ma passeggera perché ancora nel mondo reale. In fondo sono già morti. Il ballo di Tereza è macabro. E Tomas si è ormai annullato in lei la cui debolezza era in realtà ostinata aggressività e si addomestica come Karenin, il cane che morirà come loro in campagna. I rapporti di forza vengono così a perdere la loro ragion d’essere. La forza sicura di Tomas crolla perché ha cercato la pesantezza, è voluto tornare ad un passato che non potrà più essere come prima e così dovrà rinunciare a tutto, posizione, libertà, passione. È definitavamente capitolato ai colpi di Tereza, lui che avrebbe potuto abbandonarla, perderla, sconfiggerne la presenza quando avrebbe potuto. Ma se il forte non sa colpire il debole allora non è più forte. E se non riesce ad esplorare il necessario, il possibile, allora ogni gesto e ogni pensiero diverranno insopportabili per sé e per gli altri in quanto manifestazioni di vita in un mondo privo della libertà. Una libertà che spetta a tutti ma che va conquistata con le nostre azioni. Tutta la nostra esistenza, tutta la nostra storia dipende da questi rapporti di forza. Quello tra Tomas e Tereza manteneva saldo il loro amore poi lui non fa a meno di annullarsi e tutto crolla perché lei invece non si arrende e continua a combattere. Ma così il suo ruolo viene meno. Il protagonista si illude che si possa plasmare la propria vita o dirigere l’evolversi di società intere. E’ per questo che scrive l’articolo su Edipo, che sia i cechi che i russi vogliono manipolare. Non c’è innocenza che tenga, siamo tutti Edipi che non possono non cavarsi gli occhi dinanzi a qualsiasi azione della quale non riusciamo a sentirci responsabili. Gli uomini sono solo conseguenze delle proprie azioni e non frutto di percorsi più o meno obbligati della storia. La storia anche quando sembra ostile all’uomo è in realtà prodotto di un unico attivo soggetto, l’uomo stesso. Sabine conosce molto bene questa lezione e sa quanto sia importante il tradimento. Bisogna tradire sempre per vivere e lei arriva al punto di farsi accusare di indifferenza verso il paese che ha abbandonato senza combattere. Stabilisce così una barriera tra pubblico e privato, nel suo studio si entra dimenticando il mondo esterno che ci condiziona in ogni modo. Franz, l’amante non vuole capirlo perché crede nella fedeltà e la trasparenza, vuole vivere in una casa di vetro e tormentato dai sensi di colpa verso la moglie la lascia. Ma Sabine non può che fare altrettanto e fugge a Parigi. Non c’è inganno, non c’è colpa. E non c’è innocenza. Come per quei comunisti che entusiasti legittimarono le peggiori atrocità dicendosi poi inconsapevoli, raggirati, in buona fede. Non è importante. Devono comunque andarsene e assumersi le proprie colpe. E cavarsi gli occhi come Edipo. Insostenibile e pesante metafora in cui di diritto invitiamo affettuosamente Philip Kaufman.

L’insostenibile leggerezza dell’essere (The unbearable lightness of being, Usa 1988), Philip Kaufman

5.3

In realtà non è l’irrazionale luccicanza a portare Danny, il bambino, fuori dal labirinto innevato che congelerà per sempre la lucida follia dell’orco cattivo, il padre scrittore. (Se) Ne uscirà ancora con ben altra freddezza, con la logica, il gioco, il nascondino. Se si è giocati, se si è scritti, se si è marionette allora solo chi lo ne è consapevole potrà superarti. E l’ostilità potrà farsi doppio ossia comfort, salvezza, rifugio, memoria. Così la casa, l’Overlook hotel. Così tutto. E la natura violentata potrà cedere se immersa nell’inconscio, quell’inconscio che rende i sensi rarefatti ed onnicomprensivi, dà più significati alle parole, alle persone ma soprattutto alle immagini. Immagini di un mondo che fa immagini ed è a sua volta immagine. Immagine apparentemente equilibrata, rigida, “steady”. Nel puzzle incomponibile del tempo e quindi del cinema forse c’è una via d’uscita, forse Kubrick non è così pessimista, forse…

Shining (The Shining, Usa 1980), Stanley Kubrick

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