Takeshi Kitano, la morte del/nel tempo

Il cinema di Kitano pratica l'invisibilità, il rimosso fenomenologico della sparizione, per colmare il vuoto della presenza con un altro vuoto, se possibile ancora più siderale, quello della contemplazione di quest'ultimo. Un profilo del grande cineasta in occasione dell'uscita dello splendido “Dolls”

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Il cinema di Kitano gioca con la vita, scherza con la morte, eppure fugge da ogni soluzione definitiva, è danza lucente di fotogrammi sospesi, tenuti sul margine del visibile con la sola forza dello sguardo. Si può dare vita all'invisibile, si può dare rappresentazione dell'infilmabile? Dopo Dolls, ci sentiamo di rispondere affermativamente. Non è questione di affrontare il cinema come scrigno magico in cui racchiudere il segreto della fenomenologia della luce. Si tratta di partire dalla morte, dall'annichilimento, dall'atrofizzazione della carne in oscenità tautologia di senso che parafrasa se stessa, parodizzandosi al tempo stesso come parabola statica del desiderio, punto di non ritorno dell'atto. Il cinema dell'autore giapponese ripercorre il cerchio della propria crescita, si avventura nel luogo di formazione dell'immagine, inserendosi infine nella coazione a ripetere dell'atto per l'atto. Si ha questa impressione di fronte all'ultima opera di Takeshi Kitano, azzardata giravolta stilistica sul non-essere del cinema. O meglio, sul proprio essere pura illusione di movimento, infausta/terribile/sublime dichiarazione d'impotenza di fronte all'inarrestabile profluvio di immagini, di colori, di suoni prodotti dal leggero fruscio della vita. Quando in sala si spengono le luci, restiamo soli con i simulacri Bunraku di corpi inerti, immobili, silenziosi. Significanti ombrosi di un racconto che paradossalmente sta per nascere sulle macerie di un'azione arrestatasi improvvisamente. Eppure, prima deve esserci stato qualcosa. Un'impressione di movimento, forse, o soltanto un superficiale moto ondivago che sembrava spostamento, ma che in realtà nascondeva un'ombra di senso ben più consistente. Proviamo a vedere, magari leggendo nelle intenzioni del gran burattinaio

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Takeshi Kitano nasce il 18 gennaio del 1947 a Adachi-ward, Tokio. Nel 1965 si iscrive ai corsi di ingegneria della Meiji University che però lascia solo due anni più tardi. Non ha le idee molto chiare Takeshi, e naviga in questo modo attraverso diversi proponimenti per il suo futuro che appare quantomai incerto. Poi, la svolta. Nei primi anni settanta inizia a farsi strada nel varietà, fin quando con l'amico Kiyuchi Kaneko forma il duo comico The Two Beats. E' il successo allora, ed una consacrazione che porta Takeshi a divenire nel corso di brevissimo tempo uno dei comici giapponesi più noti. La sua è un'azione mimica irriverente, iconoclasta, irruenta. Si tratta pur sempre di comicità, ma di un tipo che pare andare addirittura oltre la solita dialettica basata su gag e risposta del pubblico. Lo pseudonimo Beat Takeshi (che conserverà poi nelle opere in cui appare come attore), viene subito dopo, insieme ad una valanga di apparizioni televisive in cui Takeshi interpreta più parti nello stesso tempo. Conduttore di talk-show, di programmi educativi e giochi a premio, infine opinionista di settimanali e quotidiani come Shukan Post e Shinko 45. Kitano inizia dunque a tessere traiettorie perpendicolari all'orizzontalità piana dell'universo artistico/comunicativo giapponese, apparendo come portatore non necessariamente sano di un modo di fare che caricaturizza l'impianto esistente della realtà, trascinandolo nelle secche di una sua sublimazione assolutamente folle. E' la volta poi delle prime apparizioni cinematografiche, anche di lusso, come lo splendido Furyo di Nagisa Oshima, in cui Kitano interpreta il terribile sergente O'Hara, una sorta di strano miscuglio di buffoneria e sadismo che già contiene in nuce la sua futura vesta autoriale, intessuta di paradossi impossibili, di tenerezze improvvise, di scatti d'ira incontrollabili.

Nel 1989 nasce il Kitano regista. Si tratta di Violent cop (opera che inizialmente non doveva essere diretta da Kitano) ed è la storia di un poliziotto, un'apparente noir che nelle mani di Kitano si trasforma in parabola esistenziale condita di continui intoppi, esitazioni, frammentazioni stesse della durata, che fecero invocare il nome di Godard e quello di Bresson. Fu poi la volta di Boiling point, sorta di strano racconto di formazione in cui Kitano ricompare come attore, dando però spazio al reale protagonista dell'opera, un ragazzo alle prese con gli yakuza giapponesi. Con Silenzio sul mare (A scene at the sea,1993), Kitano non recita, ma si limita a dirigere. E ad evocare una cornice di primi piani del protagonista (un giovane spazzino sordomuto) a ridosso del mare, suscitando nel bel mezzo della messinscena una sorta di frattura irreparabile: l'uomo si affaccia sul mare, si avvicina alla morte, ne è in qualche modo avvicinato. La stessa conclusione, se possibile ancora più estrema, appare in Sonatine (1994), vincitore del Festival di Taormina. Con Getting any (1995) Kitano cambia totalmente genere, si avventura nel grottesco più spinto, sino a trasformare il suo protagonista in un moscone gigante. Si tratta di una delle opere più sbilanciate del regista e, se possibile, anche di una delle più geniali, ma pare che se ne siano accorti in poco. Il 2 agosto del 1994 Kitano viene ricoverato in seguito ad un grave incidente di moto avuto nel centro di Tokio. La parte destra del viso gli resta paralizzata, e la convalescenza dura abbastanza a lungo. Takeshi ne approfitta e si mette a dipingere, sperando in un imminente ritorno sulle scene. Kids return (1996) allora, malinconica storia dell'amicizia di due ragazzi su cui spira un'aria per certi versi truffautiana, ma al tempo stesso carica di un sentimento di perdita assolutamente originale e sincero. Con Hana-bi, vincitore del Leone d'Oro al Festival di Venezia del 1998, Kitano riceve la consacrazione ufficiale. E' un'opera il cui fraseggio noir viene continuamente interrotto da insistenti derive di un testo lacunoso, asfittico, smembrato. Si ha come l'impressione che la frammentazione del testo narrativo preluda ad un'esplosione finale di forme in cui Kitano abbia racchiuso il vero senso dell'opera. Con L'estate di Kikujiro (1999) il regista ci regala un'escursione triste e appassionata nel modo dell'infanzia, un duro ritratto di un bambino che vaga insieme ad un buffo yakuza in cerca della madre. Poi Brother, insieme a Dolls forse, il suo film più teorico, in cui Kitano filma la sua strana trasferta in America, e infine questo immenso Dolls, vero e proprio oggetto misterioso del cinema contemporaneo.

Eravamo partiti dalla staticità funerea delle marionette bunraku, siamo giunti ad un apparente viavai di corpi bruciati da febbricitanti ansie di movimento. Il cinema di Kitano si alimenta di contraddizioni, è contraddizione. Il movimento di un corpo morto, l'illuminazione filmica di strati malinconici di passato che si accumulano nell'indecisione di venire meno rispetto alla visione, di eclissarsi nel tormento terribile della veglia che prefigura la morte. E' mare il cinema di Kitano, distesa in cui perdere lo sguardo, perché è solo in questo modo che lo si può affrancare da ogni sistematizzazione, griglia, schema, preconcetto. Un uomo di fronte al mare, lo spazio fisico diventa graffio concettuale, il tempo non esiste. Non può esistere. Ci racconta storie universali il cineasta giapponese, e non potrebbe fare altrimenti. La fine è già nota (l'inizio ipnotico/danzante di Dolls), la partenza non è che un'ipotesi da narrare partendo dalla sua negazione. La temporalità del dopo-morte non accetta cronologie di sorta e ci pare francamente inutile stare qui ad analizzare una costruzione sospesa nell'effimero della fantasia. Quando il protagonista di Hana-bi prova far coincidere il suo tempo (quello della finzione, quello del rimescolamento impazzito delle sorti della visione) con quello dato in pasto agli sguardi di noi spettatori, il set non può far altro che dividersi, lacerarsi, in segni organici di una presenza restituita soltanto a tratti, fulminata in singhiozzi di durata che non saranno mai tempo, perché il tempo è quello della scrittura, del romanzo, non della morte. Il mare allora, in cui chiudere, in cui far tornare per la prima ed ultima volta i conti di una visione che non sarà mai quella esaustiva da racchiudere in forma scritta, dunque visibile. Il cinema di Kitano pratica l'invisibilità, il rimosso fenomenologico della sparizione, per colmare il vuoto della presenza con un altro vuoto, se possibile ancora più siderale, quello della contemplazione di quest'ultimo. Quando il set si palesa all'occhio quale ricettacolo disperato di tanti, diversi iati, non si può far altro che mettere in moto il cinema, illudendosi ancora una volta che possa restituire al corpo una sia pur flebile parvenza di autonomia e di spostamento. L'estate di Kikujiro allora, con il suo viaggio mancato in partenza (eppure datore di preziose illuminazioni fantastiche che ridanno vita alla speranza sotto forma di utopia infantile), ma anche la fissità mortuaria di Sonatine col suo vagare su litorale sabbioso del set come fosse davvero l'ultimo non-luogo in cui affondare ogni parvenza vitale, e ancor di più, il gioco con le interruzioni di senso in Hana-bi, intermittenze del cuore ancora attaccate ad una scena primaria da ri-visitare ogni volta come fosse la prima. E' per questo che in Dolls, il carico astratto di coordinate accumulate fino a questo punto si infrangono contro la visibilità percettiva del non-più-vita e del non-ancora-morte, restituendoci brandelli di vita sbiaditi come la corda che lega i due amanti del primo racconto, e accesi come i colori dei loro abiti, puro travestimento carnevalesco costruito su un'azione continua che dà vita (è questa la strategia per mezzo di cui Kitano inserisce le altre due storie), anche quando è appesa ormai per sempre ad un albero, anche quando assume i connotati di rigide bambole destinate a perpetuarsi nella rappresentazione romantica di un folle desiderio d'amore. Anche quando è già morte.

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