Tarde para la ira – Incontro con il regista Raúl Arévalo

A colloquio con il giovane attore e regista spagnolo, reduce dal successo della sua opera prima, distribuito in Italia come “La vendetta di un uomo tranquillo”. In sala dal 30 marzo

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Giacca e camicia blu scuro sopra un paio di jeans, barbetta incolta, sguardo curioso e che lascia trapelare tutta la soddisfazione e l’entusiasmo per avere coronato il sogno infantile di dirigere una pellicola dopo anni trascorsi davanti alla macchina da presa in veste di attore, tra l’altro tra i più apprezzati dell’ultima generazione dal pubblico come dalla critica spagnoli. Raúl Arévalo, classe 1979, nativo di Móstoles – un comune spagnolo di poco più di 200.000 abitanti situato nella comunità autonoma di Madrid – ha voglia di raccontare e di raccontarsi, si presta con estrema disponibilità al fuoco incrociato delle domande, si concede amichevolmente ad autografi, selfie e strette di mano. Soprattutto, sembra cogliere con consapevolezza il momento favorevole e non esita a sfruttarlo per farci accostare e prendere confidenza con la sua “creatura”, il suo primo lungometraggio, frutto di una gestazione piuttosto travagliata e laboriosa durata otto anni. Tarde para la ira (La vendetta di un uomo tranquillo, 2016) è stato presentato in anteprima internazionale il 2 settembre scorso nella sezione Orizzonti della 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (LEGGI la recensione di Aldo Spiniello) ed è stato selezionato per essere proiettato nella sezione Discovery del Toronto International Film Festival 2016. Vincitore di quattro Premi Goya 2016 (nelle categorie miglior film, miglior regista esordiente, miglior sceneggiatura originale e miglior attore non protagonista), il film si avvale della fotografia di Arnau Valls Colomer, delle scenografie di Antón Laguna, dei costumi di Cristina Rodríguez e Alberto Valcárcel e delle musiche di Vanessa Garde e Lucio Godoy ed è stato strenuamente sostenuto dalla produttrice di La Canica Films, Beatriz Bodegas.

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Formatosi come attore alla Escuela de Interpretación Cristina Rota di Madrid, Arévalo ha debuttato a 21 anni recitando nelle ultime due stagioni della serie televisiva Compañeros. Dopo alcuni ruoli minori in produzioni cinematografiche e televisive (El camino de los Ingleses di Antonio Banderas, 2006), entra nel cast principale di Azul Oscuro Casi Negro (2006), esordio alla regia di Daniel Sánchez Arévalo. La collaborazione con quest’ultimo prosegue con altri tre lungometraggi (Gordos, 2009; Primos, 2011; La gran familia española, 2013) e con il cortometraggio Traumalogía (2007). Fra i suoi film successivi, Los girasoles ciegos (2008), Ballata dell’Odio e dell’Amore (2010), También la lluvia (2010), Gli amanti passeggeri di Pedro Almodóvar (2013) e l’acclamato La isla mínima di Alberto Rodríguez (2014).

7457d1e3d155af8Tarde para la ira racconta la storia di Curro (Luis Callejo) – l’unico uomo che a Madrid, nell’agosto del 2007, viene arrestato per la rapina in una gioielleria, rimanendo in carcere per otto anni e lasciando sola la fidanzata Ana (Ruth Díaz) e il figlio da lei avuto – e di José (Antonio de la Torre) – un uomo solitario e riservato che sembra non adattarsi mai a nessun luogo e che comincia a manifestare interesse per la bella Ana, ma che in realtà è mosso da una terribile sete di vendetta. La sceneggiatura è stata scritta a quattro mani con l’amico e psicologo David Pulido. Ed è evidente, nel film, lo scavo nei personaggi, negli impulsi più nascosti, negli anfratti più torbidi di ognuno. Un discorso che, a ben vedere, non riguarda soltanto il singolo (l’insoddisfazione sentimentale e le pulsioni sessuali di Ana, lo spirito di adattamento e il codice d’onore di Curro, la “pazienza” e la pianificazione della vendetta di José), ma che sembra riprendere degli archetipi universali tratti dalla tragedia greca. Allo stesso tempo, lo spirito di vendetta che pervade la pellicola sembra richiamarsi alle antiche leggi tribali, al codice di Hammurabi, a quello delle XII tavole del diritto romano arcaico, all’antico diritto germanico e a quello islamico, finanche ad un passaggio dell’Antico Testamento (Levitico, 24 19-20), tutti testi che in una certa misura rimandano ad una forma di primordiale “legge del taglione”. “È stato in effetti fondamentale il contributo di David. Io volevo realizzare un film realistico, crudo e asciutto ed esigevo che la profondità psicologica dei personaggi fosse credibile. Ma mi sono anche reso conto che spesso la realtà non funzionava nella finzione cinematografica. Per esempio, prendiamo una persona come il protagonista della pellicola, José: per otto anni è stato chiuso in questa spirale di rabbia che si è come incistata nella sua interiorità. Ecco, David mi diceva che persone del genere, con questo profilo psicologico, nel 95 per cento dei casi hanno dei tic e dei disturbi di natura ossessivo-compulsiva. Questo sullo schermo li avrebbe fatti apparire come dei pazzi e avrebbe reso ancora più difficile per lo spettatore empatizzare con il personaggio. Quindi, in certi momenti, ho dovuto fuggire dalla realtà”.

Il film ha molti richiami alle pellicole di Sam Peckinpah, a cominciare da Cane di Paglia (1971), e, nelle scelte stilistiche, nella composizione delle riprese e nei movimenti di macchina utilizza tutta una serie di possibilità espressive del linguaggio cinematografico, mostrando numerose suggestioni ed influenze che vanno dall’hard boiled al thriller psicologico fino al revenge movie. “Avevo in mente in maniera chiarissima l’idea che questo racconto doveva essere un ritratto filmico con un’identità fortemente spagnola, per le atmosfere e per le location: doveva rappresentare i luoghi che conoscevo bene e quindi ho fatto in modo di portare la narrazione in una dimensione che mi appartenesse, sul mio terreno. Nel raccontare poi il film ai finanziatori e ai produttori che dovevano investire il denaro, ho pensato ovviamente anche a Peckinpah, ma ho fatto riferimenti anche a Matteo Garrone, ai fratelli Dardenne, a Jacques Audiard, al Carlos Saura degli anni Settanta e ad Ashgar Farhadi. Questo per quanto riguarda le atmosfere e certe soluzioni stilistiche, ma tutto doveva essere raccontato a Madrid, nella Nuova Castiglia”.

La formazione di attore di Arévalo non sembra averlo mai distolto da quella che era la sua massima aspirazione, diventare regista. “Ho sempre voluto dirigere prima ancora di fare l’attore. Ma ho avuto la fortuna, già a partire dai 12 anni, di avere molto lavoro in Spagna come attore, sia al cinema che al teatro e in televisione. Ho sempre visto in questo mestiere una sorta di apprendistato per diventare regista. In qualche modo, ho assorbito tutto quello che vedevo, ho vampirizzato tutti i registi e le varie maestranze con cui ho lavorato. Come regista, poi, volevo girare una pellicola che fosse anche un film di attori, partendo dal presupposto che so cosa aiuta un attore nell’avvicinarsi ad un film: sapere che cosa fa un regista e in cosa consiste precisamente il suo lavoro”. Il trentasettenne di Móstoles racconta di essersi divertito molto e di essersi sentito a suo agio dietro la macchina da presa, di come la possibilità di trovare soluzioni ai problemi che di volta in volta si presentavano lo abbia riempito di felicità: “eppure, sono una persona estremamente immatura, se mi arriva una lettera dalla banca mi dispero, mi sento angosciato da tutte le faccende del quotidiano”, racconta sorridendo. “L’unico momento che mi ha fatto soffrire un po’ è stata la fase del montaggio, anche se la trovo molto stimolante. Per un mese non ho dormito la notte, passavo tutto il giorno a casa a parlare ed a confrontarmi con il montatore. Ecco, ero piuttosto depresso”.

vendetta1-900x500José, il vendicatore, è un borghese ricco, figlio di gioiellieri e proprietario di immobili; Ana è una ragazza-madre, di bassa estrazione sociale, che gestisce un bar di periferia con il fratello Juanjo; Curro proviene da un barrio piuttosto povero e caratterizzato dalla presenza di delinquenza e microcriminalità. Tutti elementi che parrebbero rimandare ad un’analisi cruda e sincera della situazione sociale della Spagna contemporanea. Ma, a differenza che ne La isla mínima di Alberto Rodríguez, qui i riferimenti socio-politici sono appena accennati e non intendono offrire elementi di riflessione particolari: “Provengo da un quartiere molto simile a quello di Curro e conosco perfettamente questo tipo di atmosfere e di ambienti. Volevo raccontare questa storia e sfruttare questo retroterra comune, ma ero attratto principalmente dall’estetica delle location e dalle storie dei personaggi. Alla fine, raccontando quello che conosci con un registro realistico finisci inevitabilmente per raccontare, volente o nolente, l’essenza spagnola che, in qualche modo, ha dei punti di contatto con l’Italia e l’America Latina. Erano questi gli ambienti che volevo rappresentare, ma senza mettere troppo l’accento sugli aspetti sociali e politici”.

I personaggi di José e Curro sembrano legati, in qualche modo, da una certa mediocrità: quella di José sembra acquisita nel momento della perdita della promessa sposa e della quasi perdita del padre, paralizzato su un letto di ospedale in seguito alla tragica rapina, mentre quella di Curro proviene da un disagio molto più originario, quello del barrio povero e degradato: “Sebbene provengano da due classi sociali differenti, c’è stato un evento della vita che inevitabilmente li ha uniti: l’assalto alla gioielleria, la rapina, una vittima innocente lasciata sul posto. Questo evento ha distrutto le loro vite. Quello che mi interessava evidenziare, durante il viaggio che i due personaggi intraprendono insieme, era il fatto che – sebbene siano nemici in lotta tra di loro e sebbene non si possa provare fino in fondo empatia per nessuno dei due personaggi – lo spettatore riesca a vederli nella loro nuda natura di essere umani e possa riuscire in qualche misura a comprendere il dramma della storia di ognuno di loro. Questo film non tratta un argomento originale, il tema della vendetta lo abbiamo visto al cinema tante volte, ma lo spunto nuovo che volevo inserire era proprio il rapporto tra questi due uomini”.

Sono passati tredici anni dall’11 marzo 2004, una pagina tragica per la storia della Spagna e dell’Europa. Ma Arévalo non vede un rapporto stringente tra questo evento drammatico e il modo di scrivere, raccontare e girare proprio della cinematografia spagnola: “In Spagna non è particolarmente presente questo modo di raccontare la storia del paese. In qualche misura, ne La isla mínima ci sono dei riferimenti alla fase di transizione dal franchismo alla democrazia, un’epoca molto conflittuale ed oscura anche dal punto di vista storiografico. Non so come sono messe le cose in Italia, da questo punto di vista. Ma prendiamo gli americani: parlano molto spesso della loro storia e lo fanno non di rado in maniera ipocrita, ci sono tanti film che parlano di Obama, ne vedremo altrettanti su Trump e si tratta di film che spesso riescono a concorrere agli Oscar. In Spagna ogni volta che matura l’idea di un film che affronti la storia del paese vengono fuori mille ostacoli politici, mille difficoltà produttive nella ricerca dei finanziamenti”.

raul-arevalo-vida--644x362Arévalo racconta che continuerà a recitare, ma che già sta lavorando al progetto per un secondo film. Due, tuttavia, sono le condizioni indispensabili per realizzarlo: poter contare sulla stessa libertà creativa che la produttrice Bodegas gli ha lasciato per il suo film di esordio e trovare più agevolmente dei canali di finanziamento che gli consentano di non rallentare il lavoro. Il regista, che non sembra particolarmente attratto dalle nuove frontiere della produzione seriale – ammette candidamente di non aver visto alcun episodio della web serie spagnola Malviviendo – conclude esponendo quello che è a tutti gli effetti il suo manifesto programmatico nell’approccio alla macchina da presa: “A me interessa un cinema che ti permetta di evidenziare un’identità, anche di un luogo. Se tu racconti qualcosa di specifico, di particolare, che davvero ti appartiene, allora puoi pensare di arrivare ad esprimere qualcosa di universale. L’uomo al centro di tutto: un uomo con tutte le sue fragilità e le sue debolezze, i suoi momenti di collera e le sue reazioni di pancia. Non mi interessa che questo uomo assurga a modello o ad eroe, ma vorrei che lo spettatore lo osservasse e tentasse di capirlo così come è”.

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