Tardo autunno, di Yasujiro Ozu

Il tempo passa. È tardo autunno. Siamo nel 1960 e questo è il terzultimo film di Ozu, il suo quarto a colori, una sublime camera verde di memorie e passioni posta nell’ennesima variazione su tema

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Il tempo passa. È tardo autunno ora. Siamo già nel 1960 e questo è il terzultimo film di Yasujiro Ozu, il suo quarto a colori, una sublime camera verde di memorie e passioni posta nell’ennesima variazione su tema di una sterminata carriera. Sì perché undici anni dopo il capolavoro Tarda Primavera il Maestro riprende quella stessa “storia” e ne rimescola solo pochi ingredienti narrativi: l’eterno ritorno di un racconto, pertanto, posto nel Giappone in mutazione di quegli anni. Le tradizioni e i “costumi” secolari hanno ora introiettato le mode e gli atteggiamenti occidentali; lo spettro della Seconda Guerra Mondiale è sempre presente ma percepito come un eco lontano nel nuovo miracolo economico; è così che l’ironia si fa sempre più strada nelle pieghe di un film(are) che muta impercettibilmente “pelle” con il passare delle stagioni. Insomma è la vita che nel corso del tempo (direbbe il devoto discepolo Wim Wenders) è passata sotto i nostri occhi di spettatori.

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ozu1E allora: il testimone numero uno del cinema di Ozu, l’attore feticcio Chishū Ryū, ci introduce a questa vicenda dove una vedova quarantenne interpretata da Setsuko Hara (proprio la ragazza restia al matrimonio di Tarda Primavera e la struggente giovane nuora di Viaggio a Tokyo, ora diventata a sua volta una madre…) desidera che sua figlia Ayako si sposi. Come fare? Tre amici del defunto marito orchestrano un elaborato piano che prevede (a sua insaputa) un possibile doppio matrimonio che “costringa” la bella Ayako ad accettare la corte del giovane Goto. Ma l’amore può essere ormai scisso dal matrimonio e il film sonda i solchi generazionali scavati dalla Storia incuneandosi in tre famiglie satelliti che con poche pennellate si svelano ai nostri occhi. Ozu è ormai totalmente padrone della forma cinematografica. Le sue celeberrime marche enunciative sono portate qui a una maturazione espressiva miracolosa: la profondità di campo che estende il cinema orizzontalmente sino all’infinito, oltre gli ambienti e le situazioni, sino al trascendente schraderiano; le inquadrature ad altezza tatami che configurano lo sguardo del Giappone in una netta frontalità prospettica; gli echi sentimentali che rimbombano negli ambienti vuoti ancora impregnati delle emozioni dei suoi personaggi. Infine le “ultime” pennellate: soluzioni cromatiche veramente sorprendenti, con accostamenti di colori (spesso i primari) che influenzeranno evidentemente grandi autori contemporanei come Wes Anderson o Wong Kar-way.

ozuEcco il punto, allora: a dispetto di una costruzione formale arrivata ormai al suo zenit, il cinema di Ozu coglie sempre e comunque l’umanità al massimo della sua tensione sentimentale. Perché se è vero che nelle sue storie manca la tragedia e se è vero che i sentimenti sono perennemente nascosti e protetti dietro una recitazione da automa spirituale bressoniano, è vero anche che Ozu si ostina a filmare solo i preziosi momenti prima del definitivo cambiamento. Sposa i destini dei suoi semplici personaggi al mutamento di un Paese facendoci vivere matrimoni e abbandoni, dolorose senilità e famiglie sciolte dal tempo, vecchi codici morali e nuove mode imperanti, tutto come il più intimo e sincero degli accadimenti privati. Proprio come nel cinema di Kore-eda e Hong Sang-soo (forse i suoi eredi più diretti) Ozu crede fermamente che gli “atti semplici” – mangiare e bere, abbracciarsi e fuggire, sorridere e piangere – bastino a configurare il tempo declinandolo all’infinito. Bastino a disegnare lo spazio di una socialità prima come base dell’agire umano. Insomma in quelle geometriche inquadrature di stupefacente semplicità e in quei set color pastello paradossalmente così “naturali”, pulsa la vita al di là di ogni schermo. Siamo nel 2015, è vero, i film di Yasujiro Ozu non termineranno mai.

 

Titolo originale: Akibiyori
Regia: Yasujiro Ozu
Interpreti: Setsuko Hara, Yoko Tsukasa, Mariko Okada, Chishu Ryu, Ryuji Kita
Distribuzione: Tucker Film
Origine: Giappone, 1960
Durata: 128′

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