#TFF33 – Giorno 2 – Concetti

Parole e concetti, stabilizzano le visioni della seconda giornata del TFF. Un festival che si fa disarmonico dentro un farsi del nostro presente sempre più lontano da ogni speranza.

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Si stabilizza nel percorso del festival una certa visione che il TFF vuole dare di se stesso. Si stabilizza dentro le volute di un cinema che fa della ricerca ad ampio spettro la sua primaria forza per radicarsi in un presente che sembra divenire, paradossalmente, sempre più distante dalle nostre quotidiane occupazioni. Gli ultimi eventi, che sono ancora cronaca, ci costringono a guardare a questa nostra contemporaneità in una forma ancora più precaria rispetto ad un attimo prima. Dunque il provvisorio è diventato il costante paradigma della nostra vita.
Fa bene quindi il cinema, con atto di coraggio forse inconsapevole e sottilmente sordo alla generalità degli ascolti ad aprire prospettive nuove, a radicare culture e gettare ponti che colleghino storia e presente, a tentare costruire concetti in una visione che viaggi in direzione del tutto opposta a quella in cui sembra che la storia che si sta facendo sotto i nostri occhi, sembra volerci spingere.
Eugène Green, ricerca, dopo la bellezza del barocco di Borromini, il farsi della parola come strumento identificativo e di costante rivolta. Con Faire la parole, parte preziosa della sezione Onde, Green va nei Paesi Baschi e indaga su quella cultura e sulla sua pura espressione linguistica. Con l’aiuto di quattro giovani francesi, di cultura basca, impariamo a conoscere come la diversità possa essere affidata alla lingua e al contempo quanto si senta la necessità di una lingua comune quando la cultura resta isolata nel segno di una diversità appena tollerata. Green costruisce con sapienza la sua indagine e il suo cinema si fa contemplativo, come sempre, mantenendo la matrice originale e tra queste sicuramente la ricerca sulla parola come “luogo del sacro“. Parola e bellezza si fanno canto, come accade nelle culture più isolate, come accade nelle tradizioni aborigene secondo gli insegnamenti di Chatwin in cui in canti “creano il mondo”. C’è nel cinema di Green un che di rivolta permanente e già la sua forma attonita riempie gli spazi vuoti di una riflessione che manca e già questa ci sembra diventare ottima forma di ribellione a qualsiasi codice precostituito. Il desiderio di alterità questa volta Green sembra averlo trovato proprio nella cultura basca e nel farsi della sua parola, dai fonemi così ostici e complicati, e lavorando questa volta su un lirismo che sfiora il senso del comune sentire, ma restandone, comunque, orgogliosamente estraneo. il primo segno è proprio questo sentimento che sembra sopraffare la razionalità della messa in scena a favore di una libertà di sguardo che sembra offrire una nuova veste al cinema di Green dentro lo sviluppo di strutture solite che offrono il piacere di una originalità estranea al presente.
Il discorso continua e i concetti si fanno più strettamente vicini ad una nostra necessaria

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Dustur, Marco Santarelli

Dustur, Marco Santarelli

attualità – ma in fondo la lingua e il linguaggio non costituiscono essi stessi strumenti per analizzare il presente? – su questi temi, da sempre nelle sue corde, Marco Santarelli con il suo Dustur nella Doc Italiana, costruisce un ideale ponte tra culture, magnetizzando l’attenzione del suo spettatore attorno ai temi della legge, applicata e reale, violata e ripristinata. Il carcere Dozza di Bologna diventa scenario di questo tentativo, di questa narrazione di storie in filigrana, dentro le mura di un carcere che non si vede. Nella biblioteca del carcere Padre Ignazio, con invidiabile laicità, non in possesso a molti laici, distribuisce la parola sui temi della legge per imparare e insegnare, al contempo, a costruire una Costituzione che valga per tutti. Il lavoro più inutile del mondo che da i frutti migliori del mondo nel progressivo confronto di storie e opinioni tra una cultura musulmana che purtroppo appare da più parti violata e che sembra riprendere nuova luce proprio attorno a quel tavolo in cui si espiano i peccati contro la legge degli uomini, e quella occidentale così diversa, aperta e nel contempo soggetta ad improvvise, quanto intollera(bili)nti chiusure. Tra quelle storie il sacrificio origine del tutto, quello che sarebbe servito a darci questo Paese da ricercarsi anche tra le croci dei 195 martiri dell’eccidio di Marzabotto, luogo simbolo della morte della storia come processo evolutivo e di rinascita necessaria rinascita da ceneri sempre ribollenti. Ardua prova quella di Santarelli che costruisce un cinema concreto a dispetto di un rischio di evanescenza dei concetti, annullando le sbarre di un carcere che sembra esistere nelle prime battute, quando il secondino controlla l’integrità degli intrecci delle grate delle finestre. Narrazione fitta che si fa incalzante attraverso le storie di Samad, personaggio chiave del percorso del regista, che trova in lui la rappresentazione della rinascita e di un possibile risultato al lavoro più inutile del mondo di Padre Ignazio.

Una società di servizi, Luca Ferri

Una società di servizi, Luca Ferri

Una società di servizi, Luca Ferri

Assenza di parola, ricchezza di concetti caratterizzano invece la prosecuzione del lavoro di Luca Ferri che presenta il suo nuovo lavoro nella sperimentale sezione Onde.
Abbiamo ancora negli occhi la frantumazione del cinema attraverso le vicende iperboliche del suo Abacuc, ultimo uomo sulla terra ormai schiantata e senza riferimenti culturali, e di Caro nonno, irridente pamphlet anticulturale di appena quindici minuti ed ecco spuntare Una società di servizi, silenzioso poema in immagini girato in un Giappone tanto razionale quanto lo è lo sguardo di Ferri. Per Ferri il cinema non è casualità, ma ragionamento organizzato all’interno dell’immagine e si trasforma in matematica pura, in divisione dello spazio e stratificazione multisignificante. Il suo cinema era andato veloce nella discesa facendosi beffa del fallimento di un ordine sociale e di quello di un cinema inadeguato a raccontare questa catastrofe. Con questo nuovo film l’approccio all’immagine sembra essere mutata e vi è non un’ansia di perfezione, quanto piuttosto una misura della perfezione, percepibile nello sguardo appena appassionato, ma concepito nella distanza che la macchina da presa impone.
Una società di servizi film più che mai composto, ma mai cadaverico, poiché vivo nella sua

Idealist, Christina Rosendahl

Idealist, Christina Rosendahl

struttura ingegneristica che serve a sciogliere i nodi della visione del suo pubblico.
È ancora la parola, ma non quella assente a segnare la trama di Idealist, nella sezione del Concorso, della danese Christina Rosendahl. Qui è la parola negata della verità a dominare la scena. Da un avvenimento sconosciuto ai più dell’opinione pubblica, un grave incidente atomico nella base militare americana di Thule in Groenlandia all’epoca protettorato danese, la giovane regista danese trae un film di inchiesta secondo una tradizione consolidata dentro la quale il film, di diritto, si iscrive. Il giornalista radiofonico Paul Brink decide di indagare su questo misterioso e taciuto episodio. Inutile raccontare i problemi e i dinieghi ricevuti per la sua indagine. La regista aggiunge, precisa e specifica, utilizza materiali d’epoca con grande sapienza sia quanto ai tempi, sia quanto alla comprensione del loro valore storico, con encomiabile capacità di dominio della narrazione, ma purtroppo spesso la pignoleria si pedante e la costruzione fatica trovare un punto di costante equilibrio. Resta la promessa per un futuro e un riconoscimento per avere raccontato una storia che meritava di non restare dentro il chiuso delle stanze della menzogna custodite da una politica che, pur nel mutamento dei tempi, non sembra avere mai cambiato pelle.

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