#TFF34 – La felicità umana, di Maurizio Zaccaro

La felicità umana, di Maurizio Zaccaro, parte da una premessa nobile e al tempo stesso umile perdendosi però in tentativi di ammiccamento e svolte risolutive forse troppo drastiche. Festa Mobile.

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Maurizio Zaccaro, presenza nota al TFF nonché al Lido, dove nell’edizione 66 presentò il suo documentario il Piccolo, ritorna nel capoluogo piemontese con La felicità umana. Dopo ben tre anni di ricerca e lavorazione, il regista si va ad aggiungere al segmento di autori dedicatisi alle tematiche più scottanti dell’era contemporanea. Infatti, proprio di recente, abbiamo visto documentari come Domani di Cyril Dion e Mélanie Laurent oppure Before The Flood, diretto dal divo Di Caprio e Naomi Klein, entrambi impegnati a sensibilizzare le masse sui pericoli di un sistema apparentemente saldo e premuroso.

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Zaccaro si dedica ad intervistare diversi intellettuali e qualche persona comune circa l’esistenza della felicità e il suo compimento. Moltissimi nomi: Serge Latouche, Castellitto che legge passi della Mazzantini, Aleida Guevara, figlia del Che, e l’immortale Ermanno Olmi, il quale segna una svolta nella progressione narrativa ponendo l’allerta sull’alimentazione. Sebbene l’intento sia straordinariamente nobile, c’è qualcosa di assolutamente incomprensibile nel lavoro di Zaccaro. Tutte le immagini da repertorio telegiornalistico, nello specifico raffiguranti povertà o immigrazione, non fortificano il focus, ma lo spostano lontano da un incipit interessante. Proprio perché l’autore

LA FELICITA' UMANA di Maurizio Zaccaroprende le distanze dall’idea di felicità in quanto schiava di fattori eterogenei, come l’accumulo materiale, non si spiega l’incursione di trovate ammiccanti e obsolete. Di certo, come lui stesso sottolinea, la minore disparità economica e l’abolizione della schiavitù dal mercato capitalista gioverebbero ad un walfare in caduta libera. Tuttavia, piuttosto che rincorrere soluzioni semplicistiche e che rischiano di appiattire il prodotto, si sarebbe potuto scavare più a fondo nelle opinioni o quantomeno liberare dalla patina pietosa i “poveri immigrati” per farli esprimere sulla loro idea di felicità.

Alcuni interventi sono memorabili, soprattutto quelli più piccoli e in apparenza insignifcanti. Basti pensare alla famiglia italiana in Danimarca o all’anziana signora francese venditrice di crepes. Probabilmente, anche se non esplicitato, quanto resta di più è la teoria leopardiana dell’attesa: il desiderio della felicità in vista del sabato del villaggio. Oppure la convinzione, espressa magistralmente anche da Rainer Maria Rilke, sull’impossibilità di trovarla attraverso l’ascesa. Zaccaro ha senza dubbio opzionato un tema gigantesco e gli va comunque dato il merito non solo di aver speso tanto tempo nella realizzazione, ma di aver fatto del suo meglio dove altri hanno alzato bandiera bianca.

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