#TFF34 – Sully, di Clint Eastwood

“Facciamo sul serio ora? Parliamo del fattore umano”. L’obiezione etica che Sully mette costantemente al centro dell’attenzione sembra distillare sino all’essenza il cinema di Eastwood. Magnifico.

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Facciamo sul serio ora? Parliamo del fattore umano…

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L’obiezione etica che Sully/Tom Hanks mette costantemente al centro dell’attenzione durante tutto il film sembra distillare sino all’essenza il cinema di Clint Eastwood. E allora basta giri di parole, basta inutili simulazioni, basta sovrainterpretare ogni dato e basta mediatizzare ogni esperienza, perché se si vuole venire a capo di ogni situazione complessa si deve ri-partire da lì. Dal fattore umano insito in ogni fenomeno. Immensa lezione morale impressa negli occhi del pilota Chesley “Sully” Sullenberger (un grande Hanks) che osserva tutto e tutti in silenzio, tentando di fare solo “il meglio che posso” come dice parlando con la moglie al telefono. E se un aereo appena decollato da New York è preda di un bird strikes, un imprevisto scontro con uno stormo di uccelli che mettono fuori uso i due motori, che si fa? Si tenta di atterrare nell’aeroporto più vicino, certo, ma poi si sente qualcosa, un istinto, che non è mai frutto di meri dati ma dell’esperienza unita alla capacità di guardare le cose. E si cambia decisione all’improvviso, si tenta un ammaraggio sul fiume Hudson, si portano in salvo i 155 passeggeri e si diventa eroi istantaneamente. Questa è “una storia vera” accaduta il 15 gennaio del 2009. Il dubbio rimane però: ogni simulazione di volo successiva indica che quella decisione è stata avventata, perché il percorso verso l’aeroporto La Guardia sarebbe sicuramente stato un successo, quindi Sully ha messo inutilmente in pericolo la vita di quelle persone? I periti, i computer e i dati dicono di si.

sully2Ma la vita è un’altra cosa. Sully è un film secco e schietto come il suo protagonista, racchiuso nel breve tempo dell’inchiesta sulle “cause umane” del miracoloso ammaraggio, un tempo sospeso dove lo sguardo etico di Sully ri-piomba costantemente nel trauma americano per eccellenza. Il suo aereo è attaccato, perde quota e cade, cade, cade, continua a cadere più e più volte, ossessivamente: nei sogni e negli incubi, a occhi aperti o chiusi, negli occhi di chi era intorno e nelle animazioni digitali che ricordano o simulano quell’evento. Sully guarda continuamente il suo aereo cadere: è l’uomo che cade e l’uomo che guarda nel contempo, un abisso del corpo/sguardo che fa riemergere apertamente il trauma dell’’11 settembre più volte richiamato in questo film. Con i magnifici totali dall’alto della città (costante eastwoodiana almeno da Mystic River in poi) che universalizzano e temporalizzano ogni sguardo: Sully diventa da un lato colui che “porta una buona notizia a New York, e ne aveva bisogno, soprattutto se si parla di aerei” e dall’altro colui che “ha trasportato gente solcando il cielo per 40 anni, ma verrà comunque giudicato solo per quei fatidici 208 secondi“.

sully3No. Eastwood e Sully non ci stanno alle semplificazioni o alle sbrigative dicotomie verbali. Scrostano tutta l’impalcatura mediale (che estetizza ogni eroismo) e tutte le ricostruzioni giudiziarie (che insinuano un interesse economico) per far risaltare solo il lato umano delle cose. Una sfera che, proprio come il cinema, ha ancora bisogno di un tempo adatto per empatizzare, per ascoltare se stessi e gli altri, e solo dopo formulare un pensiero. Eastwood sembra parlare all’America di oggi (anche e soprattutto a quella del post Clinton/Trump, al di là di ogni facile endorcement, perché il cinema è fatto per porre dubbi e ritrovare un terreno comune) richiamandola a quel fattore X che si chiama proprio comunità. Sully non può e non vuole aderire a idee prefissate o manuali di istruzioni, accontentandosi di rivendicare il tempo necessario per sentire insieme ogni evento: facciamo sul serio ora? Parliamo del fattore umano

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