#TFF35 – Cento anni, di Davide Ferrario

Apparentemente frammentario, il documentario di Ferrario riesce ad affermare la ricchezza di sguardi, le possibilità del racconto, la soggettività di un ricordo che si fa Storia. Festa mobile

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All’esame di storia contemporanea un noto professore chiese al suo allievo l’anno e il mese della disfatta di Caporetto. Il perché di quella domanda così diretta e precisa l’allievo l’avrebbe compreso successivamente. Caporetto non è solo uno degli eventi di maggiore interesse della nostra storia ma è stata una tragedia necessaria che ha formato, anche inconsapevolmente, le coscienze degli italiani. A cosa servono dunque i morti? A questa domanda Davide Ferrario vuole dare una risposta, attraversando cento anni, appunto, di Italia e soffermandosi sulle catastrofi a suo avviso più cruciali: da quella del 1917 al fascismo, dagli anni di piombo (la strage di piazza della Loggia) allo spopolamento odierno del Sud e delle aree più interne della penisola. Un percorso apparentemente scardinato, a volte non facile, che non avanza pretese di completezza e di immediata riconoscibilità iconografica. I primi due episodi, ad esempio, prendono le mosse da storie secondarie, non molto conosciute; l’ultimo, che sembra fuori dal coro, azzarda un parallelo con il passato – “oggi siamo di fronte a una Caporetto demografica”, dice uno degli intervistati. Una varietà che si riscontra anche sul piano formale, con la scelta di materiali e registri diversi di narrazione: monologo teatrale, testimonianza diretta, indagine sul campo; e ancora materiali d’archivio, film muti, letteratura civile.

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centoanniÈ interessante come il documentario sviluppi qui una ricerca stilistica complementare come a voler affermare la ricchezza di sguardi, le possibilità del racconto, la soggettività di un ricordo che inevitabilmente si fa Storia. Del resto sempre quel professore ci teneva a ribadire l’importanza della memoria pubblica nella ricostruzione degli eventi, perché di questo si tratta: Ferrario non è interessato a spiegare la dinamica del singolo episodio o periodo – abbiamo già le valide analisi degli storici – quanto a mostrare le conseguenze di quelle ferite, il modo in cui gli Italiani di fronte a simili insuccessi e traendo forza proprio da essi siano stati in grado di ricominciare, rimarginandosi lentamente. Si può avvertire della retorica in queste parole, cosa che non avviene quasi mai nella narrazione, che anzi mantiene una distanza emotiva tale da far partecipare lo spettatore al dolore e trasmettere al tempo stesso una consapevolezza – “nella sconfitta è più facile vedere chi siamo”. A cosa servono i vivi? si chiede il regista nell’ultimo episodio; il cerchio in qualche modo va chiudendosi, finalmente viene svelata la riflessione che congiunge il passato al presente: “l’unica maniera per ripensare il futuro” è guardare alla geografia umana, a quei territori che per mano delle nuove generazioni assisteranno a una rinascita. Ferrario si lascia sfuggire un’immagine di troppo (la scalata dei giovani verso la cima), ma di fronte a un’idea così profonda di cinema ci fermiamo per assimilarla.

 

Regia: Davide Ferrario

Distribuzione: Lab 80

Durata: 85′

Origine: Italia 2017

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