#TFF36 – Ride, di Valerio Mastandrea

Nel panorama del nostro cinema Ride è un oggetto inclassificabile. L’esordio alla regia di Mastandrea contamina umori e generi, non sempre trova i giusti equilibri, ma convince per la sua sincerità

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Nel panorama del cinema italiano contemporaneo Ride è già un oggetto inclassificabile. È un film di impegno civile eppure sconfina spesso in toni da commedia, è un dramma familiare eppure è innervato da improvvisi echi musical, è il divertente coming of age di un ragazzino eppure materializza i dolorosi fantasmi passati di un anziano. L’esordio alla regia di Valerio Mastandrea contamina umori e generi, affidandosi totalmente ai suoi tre attori principali come interfaccia emotiva. La prima sequenza del film è centrale in questo discorso: una madre e un figlio fanno colazione seduti uno di fronte all’altra, la macchina da presa li inquadra di profilo e lo spettatore è subito messo a proprio agio in un’esibita quotidianità. Ma quella non è per niente una mattina qualunque! I due stanno infatti parlando del funerale di Mauro Secondari – il marito di Carolina (Chiara Martegiani) e il padre del piccolo Bruno (Arturo Marchetti) -, ossia un giovane trentacinquenne morto qualche giorno prima in un incidente sul lavoro in fabbrica. “Ma come ci si deve vestire? Ci saranno le televisioni? Cosa dobbiamo fare?” Il film fotografa una straniante sospensione della contingenza perdendo tutto il suo tempo nell’attesa di quell’evento, nella costruzione emotiva dello stesso, nelle prove per essere credibili in una veste così pubblica e inaspettata. Ed è in questo tempo che si inseriscono molte “comparse” che oppongono solo certezze: una sfilata di caratteri unidimensionali (vicine di casa, ex fidanzate, fratelli, amici d’infanzia… che potrebbero essere i protagonisti di molti altri film che affollano le nostre sale) a cui il personaggio di Carolina si ribella senza sconti perché i ricordi fanno ancora parte della sua vita, le fotografie fanno ancora ridere di gioia e le canzoni fanno ancora venir voglia di ballare con il marito. Insomma Carolina non riesce a piangere perché è semplicemente impreparata (“ma che si muore così?”), non vuole affrontare quella responsabilità (“mi ha lasciata sola con tutte queste cose da fare”), e non si vergogna a dirlo apertamente a suo figlio (“mamma ride!”).

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I due altri filoni narrativi, pertanto, completano il quadro dell’attesa: quella del bambino che si costruisce un mondo immaginario per rimuovere il lutto sognando un futuro amoroso con una compagna di classe. E poi quella dell’anziano nonno (il padre del defunto interpretato da Renato Carpentieri, uomo burbero e con un passato di forti contrasti familiari) a cui è affidata la lontana referenza al cinema civile italiano (nel fuori campo del suo sguardo si agita la memoria dei film di Francesco Rosi o Elio Petri) perché “se c’eravamo noi non succedeva!” come gli ripetono gli amici operai in pensione.

Insomma: se le lacrime sono principalmente un mezzo di difesa/pulizia del nostro corpo, fungendo solo dopo da impetuosa esternalizzazione dei sentimenti, Ride ha il coraggio di sospendere e dilatare sia il tempo della difesa sia quello dell’apertura sentimentale, fotografando la contraddittoria mancanza di lacrime (che, per motivi differenti, accomuna le tre generazioni raccontate) come  lucida intuizione sui tempi brevi della nostra era social. Mastandrea scrive (insieme a Enrico Audenino) e dirige un film molto rischioso. Certo: non trova sempre il giusto equilibrio tra i toni e le emozioni a cui allude, blinda un po’ troppo la progressione narrativa in un ping pong di rimandi incrociati e si affida spesso alla musica dirompente come universale detonatore emotivo. Ma il punto non è questo. Perché Ride sa aprire istantaneamente una contagiosa apertura di credito verso il suo spettatore sempre incuriosito, andando ben oltre qualche piccola forzatura nella messa in scena, proprio perché animato da una sincera e appassionata libertà espressiva (un’altalena di stati d’animo che ricorda il cinema Hal Ashby o il primo Paolo Virzì). Mastandrea, insomma, dirige un piccolo racconto morale sul senso di (ir)responsabilità come chiave per interpretare il nostro presente e sul senso di colpa come sentimento represso per comprendere il nostro passato, lasciando poi ogni “dettaglio emotivo” agli occhi stralunati di una giovane donna che vuole ostinatamente sospendere il tempo della condivisione per gettare un silenzioso e privato sguardo sul mondo. A suo modo questo è un film politico.

Regia: Valerio Mastandrea
Interpreti: Chiara Martegiani, Renato Carpentieri, Arturo Marchetti, Stefano Dionisi, Milena Vukotic, Mattia Stramazzi, Walter Toschi
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 95′
Origine: Italia 2018

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    Un commento

    • Il film di Mastandrea è un film politico perché parla di dolore che non trova luoghi per essere vissuto, della morte che è scomparsa come opzione del reale che non trova luoghi per esistere, delle persone che non possono condividere ma solo rappresentarsi. E infine dell’unica comunità possibile, quella operaia che però è ormai fuori quadro e dunque insopportabilmente idea di passato. Ancora altro non c’è qui tra chi rimane. Film sentito mi pare come punto di urgenza autoriale.