#TFF37 – Padrone dove sei, di Carlo Michele Schirinzi

L’atto più inconfessabile del cinema di Schirinzi, una pulsione puntualmente solitaria, di una disperazione tenera e crudele, al cospetto di oggetti, corpi, scoperte irraggiungibili. Onde

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Padrone dove sei è l’atto più inconfessabile del cinema di Schirinzi, il punto d’arrivo di un percorso di riscrittura della percezione delle profondità (del Sud, del proprio inconscio, del gesto artistico) che giunge qui alla messa a nudo definitiva: non è più possibile provare un desiderio che sia veramente verso un corpo, sinceramente verso l’altro. E proprio per questo bisogna assolutamente, ossessivamente, ostinarsi a cercarlo, senza posa, senza paura del rischio della meccanicità della ripetizione, anche se l’unico modo per dichiarare le nostre voglie è nel silenzio di una frase “scurrile” su sfondo nero (così simili e parallele ad alcune struggenti scritte “indecenti” sui muri di paese, conservatesi nei decenni come degli affreschi sacri).
Ancora una volta le figure umane dell’universo di Schirinzi si muovono in palazzi abbandonati, in luoghi colpiti e tra i resti di una Bisanzio che è innanzitutto paesaggio interiore: la pulsione è puntualmente solitaria, di una disperazione tenera e crudele, ed è sempre al cospetto di oggetti irraggiungibili, di cui possiamo toccare unicamente delle copie, dei segni latenti. Fotografie di statue in estasi, icone rock accarezzabili soltanto dalle cover degli album, o tra i pixel sgranati di performance recuperate su youtube, gallerie di scatti da opere pittoriche da scrollare sui monitor degli smartphone, e curve femminili da immaginare a matita tra le pagine dei quaderni di schizzi.

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Più ancora che in altre deposizioni dell’autore, è difficile comprendere appieno Padrone dove sei se non immedesimandosi nelle pareti della cameretta di un ragazzo cresciuto nel più abissale e solitario dei meridioni, nell’inaccessibilità pressoché totale della materia delle proprie passioni, se non dopo interminabili attese, istanti solo sognati, immaginati, evocati in distanze impossibili da coprire, da recuperare. Un’assenza intorno alla quale costruire i propri rituali privati (grazie magari ai sabba dei Current93…), che si fa unico racconto possibile di una condizione universale, condivisa dai litorali deserti del Salento fino alle nebbie che si alzano dai fiumi del Nord: ma in questa natura che è forse l’unica opera viva in mezzo ad istantanee inerti, in questa vegetazione gocciolante, in questi cieli umidi, in questi segreti nascosti tra gli intrecci fitti dei rami c’è sempre almeno la promessa di una scoperta ancora da fare, una canzone un artista una visione una scintilla, e più di tutto l’illusione impossibile di un ritorno, di un nuovo evanescente sfiorarsi con quella mano scarnita attaccata ai tubi di un lettino d’ospedale, l’unica interazione tra due esseri umani che il film attraversa, e che riesca a concepire. Nostalgia generatasi nello stesso istante del contatto, miraggio di una nuova prima volta che ci si presenti intatta, ancora da conquistare, come sfida da espugnare, preghiera profana di liberazione, molto meno blasfema di quanto l’apparente concept “osceno” del film possa lasciare intuire. La tua assenza è un assedio.

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