The Beatles – Eight Days a Week, di Ron Howard

Il documentario di Ron Howard si interroga sul ruolo dei mass media nei tour mondiali dei Beatles. Hanno aumentato la loro fama oppure hanno logorato l’identità e il rapporto umano dei fab four?

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“la cosa poi si fece complicata ma all’inizio fu tutto molto semplice.”

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La vita dei fan più o meno storici dei Beatles è ossessionata da due dubbi che sono comunemente accettati da tutto l’ambiente musicale. I fab four hanno inciso dei dischi migliori dei Rolling Stones ma gli eterni rivali gli erano superiori nel confronto delle prestazioni live. La mano omicida di Mark Chapman ha negato per sempre il lieto fine alla parabola artistica e umana della band e nemmeno la resurrezione digitale di Free As a Bird è riuscita a chiudere la ferita. Le interviste a posteriori e i retroscena hanno cercato di addolcire il lungo feud che ha tormentato il divorzio creativo tra John Lennon e Paul McCartney. La realtà è che i due non si sono mai riconciliati in vita e che i Beatles non si sono mai riuniti nonostante tutti sapessero che prima o poi questo sarebbe accaduto.

the-beatles-eight-days-a-week-howardEight Days a Week prova a fare giustizia su entrambe le questioni anche se il punto di vista con cui il materiale delle loro tournée lascerà sicuramente perplessi gli storici della band. La data del concerto al Candlestick Park di San Francisco non è solo quella dell’ultima esibizione dal vivo della band ma coincide anche con la fine dell’innocenza dei Beatles. Il formato del documentario non nega a Ron Howard l’occasione di sviluppare il tema secondo una prospettiva personale. La ricostruzione delle loro esibizioni in person è stata sempre un argomento marginale in una carriera che invece è stata analizzata scrupolosamente sotto ogni aspetto. Il regista organizza il montaggio dei materiali con l’intenzione di portare avanti l’idea che aveva già trattato in Ed TV nel 1999. La scena in cui John Lennon scherza con il reporter americano che lo sta intervistando ad un ricevimento di gala assomiglia molto all’umorismo di Matthew McConaughey nel suo profetico film sui proto-reality. Il giornalista gli chiede chi sia delle quattro star del momento e il musicista risponde di essere quello che si chiama Eric. Nessuno si accorge della burla fino a quando non è la stessa presunta celebrità a rivelare la sua vera identità. Il suo sguardo va direttamente verso la telecamera mentre l’anchor-man gli chiede di salutare tutto il pubblico americano. L’uomo gli chiede cosa si prova ad avere di fronte quaranta milioni di persone e il ragazzo di Liverpool ammette di vederne soltanto una davanti ai suoi occhi. La stessa differenza di approccio rispetto alla notorietà tra i protagonisti e i media si rintraccia in una risposta di Paul McCartney ad un embedded del loro primo tour americano. Il musicista viene interrogato sull’impatto dei Beatles nella cultura di massa dell’epoca e resta spiazzato dall’importanza di un tema su cui non ha competenze. La loro musica non ha nessuna di queste pretese e non vorrà mai averne perché è soltanto una grande risata. La ricostruzione dello spirito dell’epoca viene affidata alle testimonianze di Whoopi Goldberg e all’audacia con cui la band sfidò la segregazione razziale nel concerto del 1964 al Gator Bowl di Jacksonville.

the-beatles-eight-days-a-weekLa tesi di Eight Days a Week è quella di capire quanto l’immagine dei Beatles fosse davvero corrispondente alla loro natura e come l’attenzione mondiale abbia intaccato la loro inclinazione a comportarsi naturalmente. La premessa è che la pressione costante della stampa e dei giornali abbia lentamente polarizzato la loro personalità verso un ruolo codificato dall’esterno. L’attenzione spasmodica a ogni loro gesto e ad ogni loro affermazione ha creato il loro mito planetario ma li ha anche caricati di una responsabilità non richiesta. La loro relazione è molto simile a quella tra Matthew McConaughey e Woody Harrelson e il rapporto fraterno dei fab four viene lentamente intaccato dalle tensioni strumentalizzate dall’agenda setting. Il commento di Richard Curtis sulle prime interviste del gruppo pone l’accento sul loro modo spontaneo di essere sfrontati e su un’empatia che andava oltre alla studiata conformità degli abiti e del look. I suoi ricordi evocano il modo in cui i Beatles insieme rappresentassero idealmente quello che ogni giovane dell’epoca sognava di fare insieme ai suoi amici. Le riprese di A Hard Day’s Night esaltavano il senso di protezione reciproca dei quattro mentre quelle di Help! tradivano un crescente senso di insofferenza. Le conferenze stampa dell’ultimo tour americano ripetono stancamente le giustificazioni dei Beatles davanti ad una stampa che è sempre più delusa dal modo in cui i quattro sono reticenti ad appiattirsi sul modello che gli hanno predisposto. Ron Howard decide di far finire il film con la volontaria sottrazione della loro sintonia al logoramento dell’industria culturale. L’ultimo concerto e la decisione di chiudersi in studio per suonare e sperimentare ha prodotto altri sei dischi memorabili ma non ha ripristinato il rapporto di fratellanza dei Beatles. I quattro non sono stati mai più amici come prima e saltare la parte delle incomprensioni non rende giustizia alla verità ma solo alla vocazione del cinema ad essere migliore della vita. Non è un caso che il film finisca con l’ultima volta che i fab four sono stati visti insieme sul tetto dei loro uffici di Londra. Lo storico concerto improvvisato per i passanti offrì una versione di I’ve Got a Feeling simbolica del loro stato d’animo. I musicisti restano nella loro postazione e ognuno di loro indossa un abito diverso come se ognuno avesse una sua parte autosufficiente. I tempi della celebre e scatenata versione di I’m Down allo Shea Stadium di New York stracolmo di sessantamila fanatici sono lontani. Eppure, George Harrison non riesce a trattenere un sorriso e ad un certo punto John Lennon e Paul McCartney si guardano in un fugace momento di complicità. Ringo si compiace nel suo impermeabile rosso di come suonare con la band sia tornato ad essere divertente dopo tanto tempo. E’ come se quel piccolo momento di abbandono nascondesse una promessa: non è più bello come prima ma ogni tanto dovremmo rifarlo. I Beatles hanno inconsapevolmente invitato il mondo a prendersi per mano e Ron Howard è convinto che un giorno lo avrebbero fatto di nuovo. Un colpo di pistola lo ha reso impossibile nella realtà ma il cinema può permettersi un’altra storia.

The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years

Regia: Ron Howard

Distribuzione: Lucky Red

Origine: USA/UK, 2016

Durata: 138′

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