The Disaster Artist. La contraddizione del vero

Il film di James Franco vincerebbe i nostri #Oscars2018: oggetto dal “doppio volto”, in bilico tra vita e cinema, l’abisso della finzione (meta)cinematografica punta il dito su/contro Hollywood.

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«[…] Chimica tra i personaggi. Comportamento umano. Tradimento. Riguardano tutti noi. È dentro di noi. Ami qualcuno. Cos’è l’amore?».
(T. Wiseau/J. Franco)

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Già prima che il film abbia inizio, James Franco regista ci mette di fronte a una contraddizione cinematografica insanabile, piazzando in prologo una raccolta di brevi interviste-elogio dedicate alla figura protagonista di Tommy Wiseau e al suo cult The Room (2003): riecheggiando l’operazione di chi, seppur cadendo nel fallimento totale, imboccò la strada della «distruzione delle barriere del cinema», Franco duplica quella manovra e si presenta al suo spettatore “straniato” con un mix di testimonianze presumibilmente reali su un personaggio altrettanto reale, ma pronto a farne un ritratto di vita che porrà quesiti ineludibili sull’arte e il cinema, ovvero sul linguaggio della finzione al suo più alto grado. Perché, in fondo, The Disaster Artist (2017) si presenta come un oggetto dal doppio volto, letteralmente in bilico tra vita e cinema (al quadrato), mettendo appunto in cortocircuito il personaggio/persona di Tommy Wiseau con il fantasma della performance e della finzione attoriale – la sua e quella dell’interprete Franco, evidentemente – , generando continui scarti tra corpi, immagini e, al livello di superficie, tra i film stessi, in una mise en abïme di vertiginosa riflessione metacinematografica, dove il rischio di perdersi è talmente concreto da non sapere più discernere il vero dal falso, come dimostrerà il finale in split screen.

Ma la riflessione può cominciare dal protagonista medesimo: Tommy Wiseau, che si presenta per la prima volta nel film – il secondo, quello di Franco – calcando la scena teatrale, il luogo cioè della separazione tout court dal mondo reale esterno, portando paradossalmente in quella scatola “uterina” tutto se stesso, con le sue passioni e i suoi impeti più veri. Strano a dirsi, tuttavia, per un soggetto che conduce la propria esistenza rinchiuso in una gabbia di segreti: «Non parlare di me», sarà l’ammonimento di Tommy all’amico Greg Sestero (Dave Franco) fin dal primo momento; non rivelare mai niente (di vero) sul suo conto, se non ciò che egli stesso lascerà emergere sotto forma di intensità ed energia emotive sul palcoscenico stesso. Strano a dirsi, ancora, per un uomo che mente sulla propria età, che si dà un nome di esplicita finzione e si presenta con un accento che ha molto poco di originario di New Orleans: quasi una copia ideale di quel noto personaggio polacco dai modi brutali di nome Stanley Kowalski a cui Tommy sembra ispirare la vicenda della propria vita e opera, segnate entrambe dall’ossessione per Tennessee Williams, raddoppiata a sua volta dalla versione cinematografica de A Streetcar Named Desire (Elia Kazan, 1951), dove a dare vita alla furia di Stanley per Stella era l’icona Marlon Brando, anch’egli incarnazione di quel “metodo Stanislavskij” che professava la risonanza emozionale (reale) tra interprete e personaggio.

Vero sul palco, finto nella realtà, Tommy rappresenta la contraddizione intima dell’attore, uno ma plurimo, faccia cangiante di un variegato “diorama sentimentale” da attraversare secondo l’occorrenza, oltreché espressione della potenza del falso in carne e ossa. Tommy, abbracciato al suo sogno naïf del successo e guardando al mito di James Dean – colui che recita «in emozioni e non in plastica!» – finirà dritto tra le braccia di Hollywood, ove “il suo pianeta personale” si scontrerà con quella plastica finzionale alla quale il ribelle Dean non sopravvisse a lungo e nella quale lo stesso Franco ebbe accesso interpretando proprio il ruolo di Dean. “Il pianeta Hollywood”, dove vince chi non è se stesso, diventerà il set di una nuova vita per Tommy e Greg e la casa-cinema del loro primo film, appunto The Room: sarà proprio qui, nel set del set, che Franco escogiterà le soluzioni più brillanti e ironiche per raccontare gli abissi finzionali di un mondo che conosce da dentro, dove all’insaputa di Tommy o chi per lui i ruoli sono già assegnati – lui sarà per sempre il personaggio cattivo o vampiro – e non c’è talento o realtà che tenga per fare di un prodotto (americano) qualcosa di autentico.

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La necessità di contaminare il suo film di elementi estrapolati dalla vita e da un sentire selvaggio e irrequieto, condurrà le riprese e il film stesso alla deriva: perché uscire dagli schemi produttivi standardizzati e trascinarci dentro “la vita a porte aperte” non è consono e mina la pacata inautenticità connaturata a quel cinema – così che neanche un’imperfezione fisica per la sexy star femminile verrà facilmente accettata dal regista-despota. Si indaga inoltre, a un secondo livello – attraverso il making of – , dentro la costruzione del set e dietro le sue macchine da presa, per scoprire falsità annidate dappertutto, nei rapporti tra colleghi quanto nell’approccio stesso all’opera d’arte. Quest’indagine moltiplica ulteriormente i suoi effetti di fronte alla consapevolezza dello spettatore di essere posto tra due film, due diverse costruzioni incastrate l’una nell’altra, due differenti e simili storie (così) americane, dimostrando la tesi pregnante dell’operazione di Franco: a fronte del motto «questo è il mio film e questa è la mia vita», si schiude in questo cinema uno scarto insanabile, ove il supposto vero sullo schermo resta fenomeno al limite del grottesco, mero risvolto fallimentare del côté drammatico della vita che abdica definitivamente in favore del falso (americano).

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