The Dolphin Man, di Lefteris Charitos

Nel documentario emerge la straordinarietà di Mayol. e il mare è una metafora dell’importanza di ritrovare un luogo per riscoprirsi come esseri umani. Domani sera al Cineclub Detour di Roma

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Nella profondità del mare, in quel luogo “sotto” la superficie della terra, tutto sembra più bello. Quanta la delusione dopo aver raccolto una conchiglia e, custodita stretta dentro al pugno, averla guardata alla luce del sole? Lì sotto l’acqua si nasconde un mondo profondo, per lo più sconosciuto all’uomo, spaventoso e affascinante al contempo. Nella sezione Homelands del festival di documentari romano Visioni Fuori Raccordo è passato The Dolphin Man del greco Lefteris Charitos.  L’uomo delfino in questione è ovviamente Jacques Mayol, famoso apneista che nel 1989 arrivò a scendere fino a -107 metri nelle profondità marine.

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Alternando immagini di repertorio a interviste di famosi apneisti che hanno seguito i suoi insegnamenti, Charitos inserisce ogni immagine in una cornice più ampia, quella delle parole di Mayol lette da Jean Marc Barr che lo aveva interpretato nel film di Luc Besson Le Grand Bleu. Attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto scopriamo che Mayol non amò il film, principalmente perché avrebbe voluto interpretare se stesso. Emerge un Mayol affascinante, a suo modo vanitoso, sicuramente determinato e competitivo ma denigratore della competitività fine a se stessa. Scendere in profondità era per lui un modo per conoscersi, una vera meditazione, ma anche uno magico stratagemma per fermare il tempo e lo spazio, entrambi così frenetici al di fuori di quello spazio meravigliosamente blu, staccato dal quotidiano affannarsi umano e dal chiacchiericcio continuo. Non dimentichiamo che Mayol era affetto da una grande depressione che lo porto al suicidio nel 2001, proprio quando si accorse che per via dell’età non sarebbe più riuscito a scendere nel suo rifugio marino.

Di nuovo il cinema documentario permette di conoscere sempre più a fondo queste personalità straordinarie, affette da una passione inguaribile, dotate di veri e propri super poteri, benedizioni e maledizioni allo stesso tempo. Viene da pensare al funambolo Philippe Petit che doveva a tutti i costi esplorare la dimensione del vuoto, profondo tanto quanto il mare. Ma la riflessone del regista greco si sposta su qualcos’altro e passa dalla straordinarietà dell’uomo all’importanza di un luogo dove riscoprire la propria umanità. Perché ritrovare quel luogo oggi sembra più che mai fondamentale. Sfuggire dagli spazi sempre più impersonali e massificanti, che gridano alla perdita dell’individualità intesa nel suo senso più prezioso. Il mare per Jacques Mayol era l’alternativa alla costante velocità del mondo, oggi sempre più spietata. E da questo aspetto un’altra urgente questione: la riscoperta del contatto con la natura così unica nelle sue leggi e regole. La competitività che l’acqua infondeva a Mayol non era la ricerca di un mero risultato ma una sfida importante: quella di ritrovarsi nel miglioramento e non di essere un numero in mezzo molti altri. Ma tutto questo era possibile solo capendo umilmente l’importanza di accordare il proprio respiro con quello della terra, unico modo affrontare con rispetto il gigante mare.

 

Ecco le prossime proiezioni segnalate di The Dolphin Man:

• Mercoledì 22 novembre al Cineclub Detour di Roma (all’interno dell’ On the Road Film Festival)

• Domenica 3 dicembre al Celacanto di Marina Serra in provincia di Lecce

• Lunedì 11 dicembre al Kinodromo di Bologna

• Mercoledì 20 dicembre presso Istituto Etnografico della Sardegna di Nuoro

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