The Foreigner, di Martin Campbell

Jackie Chan, in un ruolo cupo e dolente come non mai, è il protagonista di revenge thriller dai toni sospesi capace di farsi specchio di una realtà ormai sfilacciata. Su Netflix

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All’inizio del nono volume di quell’immaginifico viaggio letterario a spasso tra le ombre lasciate nel presente dalla caduta degli Déi prima e poi della Storia, Roberto Calasso descrive il nuovo millennio come una materia senza forma, “elusivo in ogni singola parte, è l’opposto del mondo che Hegel intendeva stringere nella morsa del concetto. È un mondo frantumato anche per gli scienziati. Non ha un suo stile e li usa tutti”. Quanto scrive Calasso sembra la sintesi perfetta della Gran Bretagna che The Foreigner mutua dal romanzo di Stephen Leather, The Chinaman. Quella attraversata da Jackie Chan, qui in un ruolo cupo e malinconico come non mai, è una nazione difettosa, la stessa che, fuori dal grande schermo, nel mondo reale, con i suoi populismi, le sue barche sul Tamigi vestite a festa per la Brexit e gli slogan roboanti di Nigel Farage, è ormai divenuta incapace di compiere quello che una volta, ormai troppo tempo fa, l’aveva resa davvero grande, ovvero “guardare oltre la società alla ricerca di qualcosa che dia significato a ciò che accade all’interno della società”.
THE FOREIGNERCi sono voluti sei anni perché Martin Campbell tornasse alla regia dopo il disastro al botteghino di Lanterna verde, magnifica scheggia impazzita, davvero troppo concettuale per poter brillare nell’universo ridondante del cinema supereroistico. Il risultato è un revenge thriller dai toni sospesi che, ritrovando quasi lo stesso andamento dolente di Fuori controllo, con Jackie Chan, padre in lutto disposto a tutto pur di dare un nome ai membri di un’ala scissionista dell’IRA che hanno ucciso sua figlia, ha tutte le intenzioni di farsi lucidissima fotografia di una realtà che non è altro che materia ormai sfilacciata, fatta della stessa colorazione opaca della moralità di chi siede sulla sedia di comando del sistema. Da quale parte, quella di Liam Hennessy, un monumentale Pierce Brosnan nei panni del primo ministro dell’Irlanda del Nord, con un passato, come Gerry Adams, da militante dell’IRA, o quella dei politicanti fedeli alla corona, non fa proprio alcuna differenza. A interessare Campbell, che trattiene l’azione, riducendo al minimo le evoluzioni dei vari corpo a corpo di The Foreigner, è il riflesso, pieno di ombre, di una nazione che preferisce apporre l’etichetta di straniero, di estraneo, al Quan di Jackie Chan, appellato da tutti solo come The Chinaman, pur essendo cittadino britannico emigrato ormai da anni dal Vietnam, e non invece a chi, nel gesto di piazzare una bomba, rifiuta l’idea stessa di Gran Bretagna o a chi, come Pierce Brosnan, in un ruolo completamente rovesciato rispetto al James Bond interpretato sotto la guida di Campbell, ha costruito la sua ascesa politica sul tradimento come arma di ricatto. Un cortocircuito di senso che Jackie Chan si cuce magnificamente addosso trasformandosi da unico attore orientale ad esser davvero riuscito, forse, ad abbattere ogni barriera, tanto da essersi guadagnato un Oscar alla carriera, a presenza estranea che attraversa l’immagine continuando ad esser ricacciata ai suoi margini, corpo “terrorista” e ribelle creato dalle contraddizioni del sistema, come un tempo era stato anche quello di Rambo, che Campbell non manca di citare, al quale non resta che il sabotaggio come atto capace di far spostare lo sguardo oltre l’immagine in modo da dar significato a ciò che accade dentro l’immagine.

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