The Ring 3, di F. Javier Gutiérrez

Terzo capitolo della saga, Rings prova a ricreare quelle atmosfere nella contemporaneità digitale, ma fallisce a fronte delle esigenze di mercato e di spunti interessanti dimenticati fin da subito.

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La videocassetta trasformata in file. Il virus, moltiplicato con la velocità di una copia/condivisione. Va da sé il superamento; nessuno sarebbe stato tanto audace da lasciare all’”obsoleto” una posizione di primo piano, tant’è vero che viene definito, per non risultare offensivi, con l’epiteto lezioso di “vintage”. Rings è il cerchio della contemporaneità, del copia-incolla subitaneo e per questo dieci volte più pericoloso del duplicato analogico. Ma sarà così? La coda: il meccanismo per cui la morte, dopo i sette giorni, è ingannabile mostrando il video a qualcun altro, si dispone in quel flusso, quello streaming a macchia di cielo cui siamo abituati. Eppure, il film si impaurisce da solo e manca di sfruttare quella globalità così ricca di spunti o anche di reinventare quel vintage in chiave odierna. Due ragazzi: lui partito per il college, lei rimasta nella città natale. Dopo qualche tempo, il giovane non risponde più né a chiamate né a messaggi. In apparenza nulla di allarmante, se non fosse che lui, come altri, ha iniziato a partecipare a delle riunioni clandestine indette da un docente che cerca di risolvere il mistero della tape killer. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole, se non un ulteriore indagine, sebbene piuttosto scarna, sulle origini della maledizione e della sete di vendetta di Samara.

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rings-movie-paramountDodici anni dopo il sequel di Hideo Nakata, regista della trilogia originale giapponese, lo spagnolo F. Javier Gutiérrez utilizza l’ambiente universitario come trampolino di lancio pseudosofisticato per la caccia all’uomo, anche se qui si tratta di un’entità non ben definibile. Ci riporta nelle atmosfere provinciali, bianco-grigie e quasi bifolche in cui il cerchio ha preso forma. Un cerchio che non si riesce a spezzare, o magari a ricompattare, come aveva fatto Naomi Watts al termine di The Ring 2. Proprio in quest’ultimo, Nakata aveva addolcito la figura di Samara, facendola passare per mite orfana alla ricerca di una madre, anche se surrogato. Da qui, l’ossessione della ragazzina per Ethan, figlio di Rachel, e l’intento di sostituirsi a lui per ricevere quelle cure tanto agognate. Eppure, il racconto della nascita di Samara, di una madre quanto mai vicina alla celebre Rosemary, ci avevano indottrinato a considerare la bambina come marchiata da Satana e quindi senza scampo dalla dannazione. Rings vuole chiaramente contrastare la semi-chiusura del prequel, ma lo fa ricorrendo ad un colossale difetto narrativo. Spiattella, piuttosto che nascondere allo sguardo. Si immette nel sentiero di quella viralità diegetica, maxresdefaultma lo fa compromettendo le potenzialità di genere. Le inquadrature strette, le luci intermittenti, perfino quella soundtrack fatta di archi che presagiscono un ignoto temibile vengono calpestati dagli strumenti di guerra di Samara: già visti e privi di un riciclo ben orchestrato. La punta di diamante dell’originale USA di Gore Verbinski, oltre alle interpretazioni, era la magnifica amalgama di investigazione giornalistica, thriller tesissimo, una paura diffusa in ogni fotogramma perché incarnata in uno spazio non fisico, e infine un mélo madre/figlio pregno di sottintesi e azioni più rumorose dei dialoghi. Gutiérrez, dal canto suo, si poggia comodamente sulla poltrona del teen horror, aggiunge un filmato dentro al filmato, magari strizzando l’occhio all’invisibile che “potremmo non vedere” ogni volta che clicchiamo play su Youtube e limitrofi, sceglie la sua eroina, la prescelta, e si limita a seguire una drammaturgia fiacca senza aggiungere nulla di nuovo se non il contesto storico.

Titolo originale: Rings
Regia: F. Javier Gutiérrez
Interpreti: Matilda Lutz, Johnny Galecki, Aimee Teegarden, Zach Roerig, Alex Roe, Vincent D’Onofrio, Laura Wiggins, Bonnie Morgan
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 117′
Origine: USA, 2017

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