Tilda Swinton, tra Derek Jarman e Luca Guadagnino

Straordinaria sia per i ruoli che ha interpretato, sia per la relazione di scambio fecondo con l’autore, icona di un cinema che armonizza cerebralità, bellezza, garbo. In sala con A Bigger Splash

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Troppo di frequente scambiata per “musa”, prima di Derek Jarman, ora di Luca Guadagnino, Tilda Swinton è lontana anni luce da quel ruolo instrinsecamente passivo e costretto fra le gabbie della contemplazione che la comune cecità d’esegesi si ostina a farle interpretare, ma ha dimostrato, a uno sguardo più complice della sua carriera ormai trentennale, di essere un corpo-parte integrante del processo creativo di un regista. Tilda non è mai stata un’Anna Karina che non esisteva prima di Godard e che, dopo la fine del loro matrimonio, quasi cesserà di esistere come simulacro filmico, come tante muse pittoriche dopo aver cessato di ispirare l’artista, e i sodalizi da lei stretti non si avvicinano nemmeno al semplice e frequente caso di modella e pigmalione, come per Marlene Dietrich e Joseph von Sternberg.

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tilda swinton in caravaggioSpulciare la sua biografia inoltre (famiglia d’estrazione militare, college altolocati con Lady Diana nel banco a fianco dunque un più che condivisibile approdo, attorno ai vent’anni al partito comunista) risolve parzialmente il mistero di un’anima che nell’Inghilterra dell’era “no future” ha saputo sincronizzarsi con l’iconoclastia punk di Jarman, maestro (anche) nel creare un vero e proprio culto attorno alla sua bellezza. Dalla prostituta Lena di Caravaggio alla regina Isabella di Edoardo II fino alla voce ammantata del testamentario Blue, romanticismo e idealizzazione sembrano i motori dell’adulazione di una macchina da presa che per anni la filma ossessivamente, anche in un quotidiano super8, e che travalica la banalità di una semplice scompaginazione dei tratti somatici (come accadrà nell’Orlando di Sally Potter) regalandole ruoli così diversi e sfaccettati da renderla l’icona intellettuale per eccellenza del periodo, di quel colpa di coda di punk inglese, cristallizzando nella celluloide quel prototipo femminino che incorpora sfrontatezza fanciullesca, ideali di libertà e dimestichezza con l’arte amatoria.

tilda swinton in michael claytonUn’attrice che si rivela straordinaria dunque sia per i ruoli che ha interpretato, sia per la relazione di scambio fecondo con l’autore, icona di un cinema che armonizza cerebralità, bellezza, garbo e che ricorda quanto le sfumature siano efficaci nel creare un personaggio, eternando un volto che, anche in uno sguardo non in movimento, regala l’impressione di poter respirare con lei, immaginare il sapore della sua bocca, indovinare il tremito dei suoi nervi, intuire lo stato della sua mente e del suo cuore in una convivenza in armonia con l’incanto delle fattezze e con l’intelligenza della libertà, focalizzandosi sul corpo, sul femminile uso e abuso di esso e sulla fiera indipendenza lavorativa e del sentimento senza logiche. La morte dell’amato Derek la libera in qualche modo da quella macchina da presa decostruttivista, sublime e fagocitante e le apre nuovi scenari hollywoodiani: ruoli in fantasy-kolossal trascurabili, apparizioni nei cult di autori come Jonze e Jarmusch ma anche un Oscar come miglior attrice non protagonista per Michael Clayton, alternando comunque l’impegno del cinema britannico che la tiene segregata a personaggi di doppia e sottile ambiguità.

L’ultimo decennio viene contaminato d’arte, moda, videoclip, sigillando l’ennesimo coup de foudre autoriale, questa volta con Luca Guadagnino. Uno dei (tanti) meriti del regista palermitano, che fin dai suoi esordi ha saputo creare con l’attrice un fecondo scambio in primis intellettuale, è stato donare nuova vita al suo corpo, una carnalità lontana dall’erotismo calcolato del suo periodo prettamente inglese: le membra flamboyant e pulsanti della Emma di Io sono l’amore, e quell’indimenticabile scena d’amor solare e pagano fra erbe e insetti (Piavoli docet), e oggi, da pochi giorni nelle sale, la rock star Marianne Lane che squarcia i primi minuti di A Bigger Splash con trucco e pailettes simil David Bowie, altro campione di ambiguità di genere. Marianne, finta afona, turgida ed elegantissima, calamita irresistibile per tutti i protagonisti del film, è il perno tragico di un edonismo graffiato come i vinili della sua villa, fasciata nelle onde di seta di Raf Simons mentre si rispecchia nella fisicità di una Pantelleria crudele e bellissima come la macchina da presa che scombina le linee del desiderio e della contemporaneità.

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