Tobe Hooper, amato e odiato

Se poco più di un mese fa piangevamo la scomparsa di Romero, Tobe Hooper è stato un altro di quelli che con il rumore della motosega di Leatherface il suo tempo l’ha cambiato davvero

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Non è facile affrontare a caldo la scomparsa di Tobe Hooper, così come non è facile nemmeno cercare di fare i conti con il suo cinema, con il suo immaginario, con la sua eredità. Non a causa dell’entusiasmo da fan, quello che solitamente fa perdonare più del dovuto; anzi, al contrario: quante volte infatti lo abbiamo abbandonato, rifiutato, quasi odiato persino? Quante volte ci siamo sentiti traditi, presi in giro da un regista capace di realizzare sia opere tanto straordinarie e seminali che altre francamente indifendibili? Se si ama il genere, se si crede ancora nell’horror e nella sua inimitabile, insostituibile carica eversiva, allora bisogna avere anche il coraggio di dire che nella filmografia di Hooper non è tutto oro quello che luccica, e che da entrambe le parti l’amore non è stato sempre corrisposto. Lo credevamo prima, con l’autore in vita, e lo crediamo ancora adesso. Dei Masters of Horror che hanno scritto la storia del genere (diciamo dalla fine degli anni Sessanta in poi), Tobe Hooper è stato quello che più di tutti ha disatteso le aspettative, con la parte migliore della sua produzione concentrata nei primi anni di carriera. Dopodichè, un lento, progressivo e inarrestabile declino, cominciato durante la metà degli anni Ottanta e che ha trovato un’unica, gloriosaimage-original interruzione con The Mangler nel 1995, forse l’ultimo colpo di coda del Nostro. Ma quello che di buono c’è stato prima ha lasciato il segno come pochi altri: Non aprite quella porta, Quel motel vicino alla palude, Le notti di Salem, Il tunnel dell’orrore e Poltergeist sono, a modestissimo parere di chi scrive, la summa, il cuore e la mente di tutta la poetica di Hooper. Una cinquina di titoli imprescindibili per capire come l’horror stesse raccontando un’epoca, e su questo non c’è molto altro da aggiungere perché ormai si sa già tutto a riguardo (o almeno si spera).

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Ma il rumore della motosega di Leatherface il suo tempo l’ha cambiato davvero. Se poco più di un mese fa piangevamo la scomparsa di Romero sottolineando, tra le altre cose, come La notte dei morti viventi sia stato fondamentale per permettere ad altri registi di continuare a raccontare i lati oscuri e rimossi dell’America (e del mondo), ecco, Tobe Hooper è stato uno di quelli che questa eredità l’ha raccolta con maggiore determinazione. Tant’è che se esiste un trait d’union nei titoli sopra elencati, è appunto quello di voler mettere in scena il legame indissolubile che è sempre esistito tra il Grande Paese e la Famiglia: l’America come risultato dell’incesto di un microcosmo di reietti, freaks e fenomeni da baraccone, messi in scena con un gusto e un’efficacia in grado di giustificare qualsiasi orazione funebre scritta in questi giorni. L’America dietro la porta, quella bruciata dal sole delle campagne del Texas o quella umida e bagnata di rancori nelle paludi della Lousiana. E alzi la mano chi, rivedendo quello che sembra(va) solamente un passatempo slasher come Il tunnel dell’orrore, non provi ancora oggi un disagio autentico con il dolly dell’inquadratura finale.

 

21083576_10213576741671225_6832962370314960631_oInsomma, un regista che fino al 1982, anno di Poltergeist, ha sempre messo tutti d’accordo. Più difficile invece concordare sul valore della sua produzione successiva: molti storceranno il naso, pazienza. C’è chi difende a spada tratta Non aprite quella porta – Parte 2, realizzato dodici anni dopo il capostipite e perfettamente integrato all’interno degli eighties di Reagan, ma imparagonabile rispetto alla ferocia di un tempo; oppure Invaders, rifacimento sopra le righe del classico Gli invasori spaziali di William Cameron Menzies. Oppure ancora Space Vampires, sgangherato omaggio alla fantascienza inglese in stile Quatermass, reso celebre più dalle nudità di Mathilda May che dal suo valore effettivo. Ma al di là dei gusti, al di là delle interpretazioni e dei paragoni scomodi con quanto venuto prima, rimangono comunque titoli che ancora dimostrano il talento visivo di Hooper, uno per il quale l’horror è sempre stato (anche) una questione di suoni e colori, volti e scenografie. Insomma, uno per il quale l’horror era una questione di bellezza. Ma era l’inizio della fine: da I figli del fuoco (1990) fino all’ultimo Djinn (2013), e fatta eccezione per il già citato The Mangler, è difficile trovare qualcosa da salvare (nonostante La casa dei massacri, remake di The Toolbox Murders, abbia i suoi insospettabili ammiratori). Come se nulla gli interessasse più. Difficile credere che il regista di Night Terrors e Il custode fosse lo stesso di Non aprite quella porta e Quel motel vicino alla palude: proprio per questo allora diciamo che è difficile fare i conti con il suo cinema. Ma lo abbiamo amato, nonostante tutto, e continueremo a farlo.

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