TORINO 23 – Film come esperienza: "Sound Barrier" di Amir Naderi

Nella cornice torinese, comunque ricca di stimoli e proposte, un film si distingue in particolare tra i tanti presentati: Sound Barrier di Amir Naderi. Un piccolo film, per produzione e per il numero di persone coinvolte, ma una straordinaria esperienza di cinema.

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La parola esperienza è usata qui non a caso: Sound Barrier – il primo film di una prevista trilogia sul suono, a detta di Naderi (ma in fondo già con Marathon la centralità del suono come elemento caratterizzante il suo cinema era lampante) – e' anzitutto la restituzione di un lavoro sul set che Naderi ha creato con Charlie Wilson, il piccolo protagonista, che interpreta la parte di Jesse, un ragazzo affetto da sordità da trauma che comunica con gli altri grazie a un bloc notes e un pennarello. Jesse è alla disperata ricerca di un nastro in cui e' registrata la voce di sua madre, morta da poco, conduttrice di Talk show radiofonici, in uno dei quali, anziché parlare delle storie degli altri, parla e racconta la propria storia, la storia di Jesse.

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Ma la storia, l'origine della sordità di Jesse, che d'altronde non conosceremo mai integralmente, non è che un McGuffin, un pretesto. Cio' che veramente importa nel film e' assistere alla disperazione e alla determinazione di Jesse nel ritrovare il nastro e nel farselo ripetere da un passante incontrato casualmente lungo una strada trafficata, in modo tale da poter vedere/sentire, attraverso la lettura delle labbra, ciò che la madre racconta.


Disperazione e determinazione che Naderi testimonia attraverso gli spazi e I suoni entro i quali Jesse si muove, dal box di un magazzino, in cui un misterioso personaggio di nome Roger raccoglie e cataloga migliaia di nastri contenenti le voci di conduttrici radiofoniche (uno spazio chiuso e soffocante dove Jesse passerà la notte alla ricerca del nastro); alla strada affollata di auto e camion sfreccianti, dove il ragazzo cercherà di leggere le labbra dell'uomo che sta ascoltando il nastro. Il chiuso e l'aperto sono anzitutto ambienti sonori nel film, suoni che si caratterizzano per il continuo scarto che producono tra la percezione soggettiva (il silenzio che circonda il mondo di Jesse, sordo sin dall'infanzia), e la percezione oggettiva, i rumori della strada, delle auto che passano ad alta velocità senza soluzione di continuità sopra il ponte newyorchese.


Uno scarto che crea un abisso tra il film e lo spettatore: si è costretti, infatti ad entrare ed uscire in continuazione dall'universo di Jesse, ad avvicinarsi ed allontanarsi, in un movimento vorticoso che non ci lascia mai, crescendo anzi dintensita' man mano che il film va avanti. Ciò che il film testimonia è, anzitutto, l'impossibilita' di immedesimarsi in un'esperienza radicale come quella di Jesse, esperienza che e' stata preparata da Naderi con un lungo training condotto sul giovane protagonista, costretto per mesi a non parlare, ad apprendere la lettura delle labbra, a passare un tempo lunghissimo sul set claustrofobico del film.


Qualcosa di radicale accade dunque già sul set, e il film ne rende testimonianza, Sonora e visiva, o, meglio, audiovisiva, perchè il suono acquista qui un dimensione specifica, diventa esso stesso, in un certo senso, immagine.


L'esperienza è dunque complessa, stratificata, multiforme. Ma la testimonianza che se ne può dare non può che essere e restare un traccia, segno di qualcosa che non può essere rivissuto, ricreato, ripreso. In questo, Sound Barrier si conferma come uno dei film più straordinari visti a Torino, segno e testimonianza di cinema.

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