TORINO 24 – "L'uomo in rivolta": retrospettiva Robert Aldrich

Dall'esordio di The Big Leaguer all'ultimo splendido California Dolls, il cinema di Aldrich si nutre di grandi tensioni e dualismi. Un individualismo anarchico, tenero e disperato, che si traduce in una magnifica poetica virile e in uno stile vigoroso, moderno nelle soluzioni visive e di messa in scena

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Ripercorrendo l'opera di Robert Aldrich, dall'esordio su commissione The Big Leaguer (1953) sino allo stupendo …All the Marbles (1981), si ha il senso di un cinema estremo, percorso da tensioni dirompenti, di una poetica unitaria e pericolosamente "avanti" a dispetto degli ostacoli produttivi, di uno stile vigoroso, modernissimo nelle soluzioni visive e di messa in scena. Un cinema i cui nuclei fondanti si rintracciano già nella straordinaria produzione degli anni '50. In Kiss Me, Deadly (Un bacio e una pistola, 1955), film prediletto dai giovani turchi dei Cahiers, c'è la ferma negazione dell'(anti)eroe, tipico del cinema hard boiled. Mike Hammer, private eye, non assomiglia in nulla al Marlowe de Il grande sonno o al Sam Spade de Il mistero del falco, non ne ha lo spessore morale, né quell'aria da reduce, ultimo erede di un mondo ormai tramontato. Mike Hammer, al contrario, partecipa di quel disfacimento, riunisce in sé tutti i difetti di un'intera società, l'egoismo, la violenza, la presunzione effimera. Non si fa specie di mandare al macello amici e fidanzate, pur di raggiungere i propri scopi. Si ferma solo quando si rende conto di essersi immischiato in qualcosa di troppo grande e pericoloso. E alla fine non può far altro che contemplare la reazione nucleare che metterà fine al mondo. Aldrich carica di una tensione vertiginosa le immagini, fa sentire la vibrazione dell'eco storica (la guerra fredda, il pericolo atomico, il maccartismo). Ed è coerente sino all'estremo: se la società in cui viviamo è in caduta libera, allora distruggiamola definitivamente in un lampo di fuoco. Una prospettiva apparentemente nichilista: un pessimismo della ragione che si traduce nella contemplazione di una violenza efferata e spesso gratuita.

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E il cinema di Aldrich sarà sempre e comunque l'analisi, la radiografia di questo abbrutimento morale, di questa violenza imperante, palese nei film di guerra (Prima linea, Le colline dell'odio, Dieci secondi col diavolo, fino ad arrivare al radicale Quella sporca dozzina e a Non è più tempo d'eroi, film dal titolo emblematico), strisciante in altri contesti, dove si traduce nel sadismo dei rapporti (Che fine ha fatto Baby Jane?) o nella melliflua ipocrisia della società (L'assassinio di Sister George). La desolazione del quadro è il riflesso di un mondo alla deriva, di un'anarchia morale, in cui le leggi non esistono o, seppure esistono, non vengono fatte rispettare. Si pensi a quel ritratto apparentemente giocoso, ma in realtà tragico e corrosivo, dei poliziotti cialtroni de I ragazzi del coro, figli probabilmente incolpevoli dei guasti di una politica imperialista (la guerra del Vietnam dell'incipit) e di un "fascismo" culturale. Ma tra le macerie ogni tanto emerge qualche segnale di speranza. In effetti, Aldrich, spirito americano combattivo e indipendente, racconta la lotta di uomini alla ricerca di un senso da dare alla propria esistenza, di un'etica individuale da contrapporre alla barbarie del presente. Se non è più tempo di eroi, persi nell'epopea del vecchio west, c'è comunque spazio per uomini che fanno della coerenza e del rispetto di se stessi l'ultimo ideale possibile. Come il tenente Phil Gaines, il protagonista di Hustle (Un gioco estremamente pericoloso, 1975), poliziotto disilluso, ormai cinico, ma ancora capace di sognare e di percorrere fino in fondo la sua strada, a prezzo della morte.  E la sua lotta ai Leo Sellers e alle ingiustizie che essi incarnano non può attuarsi che attraverso l'infrazione della legge.

Se il mondo va alla rovescia, se il sistema ha elevato il sopruso a regola, allora non resta altro che infrangere l'ordine, porsi al di fuori della legge materiale, in nome di una legge morale che sembra dimenticata. E' questo il cuore, il nucleo vitale della poetica di Aldrich: alla deriva del presente si oppone l'individualismo anarchico. In gran parte dei suoi film Aldrich mette in scena un conflitto, uno scontro a due (Vera Cruz, Prima Linea, L'occhio caldo del cielo), i cui poli non sono tanto il bene e il male, ma piuttosto l'ordine e la ribellione. C'è qualcuno che difende l'ordine costituito ed un altro che vuole infrangerlo, per affermare la propria libertà. Una dinamica che assume la valenza della parabola nel capolavoro della maturità, L'imperatore del Nord (1973). Il capotreno Shack (Ernest Borgnine) e il Numero 1 (Lee Marvin) nella loro sfida tanto assurda quanto affascinante, mettono in campo una serie di valori fondamentali, combattono per un'ideale. La loro caparbia assomiglia alla follia. Perché mettono in campo l'onore, il rispetto per sé e per l'altro. Il combattimento finale sul treno, immerso in una luce bruciante, ha il sapore di un duello western, che assume profondità epiche. Shack e No.1 si giocano cuore e passione, oltre che muscoli e sudore: due titani in lotta per l'affermazione di se stessi e del mondo che rappresentano. Il giovane Cigaret (Keith Carradine) può stare solo a guardare, perché non appartiene più a quel mondo ideale, rispecchia la meschinità presente. Ha la stoffa del numero uno, gli urla Lee Marvin, ma non ne ha il cuore, non ne ha lo statura morale. Con Cigaret l'epica muore per lasciar posto al grottesco, allo squallore. E' l'altro dualismo fondamentale del cinema di Aldrich: da un  lato l'etica della lotta, tipica forse del passato, dall'altro il cinismo ingannatorio e un po' vigliacco del presente (si veda Ultimi bagliori di un crepuscolo, dove le ragioni della politica portano al sacrificio dello stesso Presidente degli USA).

Non si tratta di eroismo. Ma in Aldrich c'è la consapevolezza che quando il gioco si fa duro, solo i duri possono combattere. I personaggi che ama sono le canaglie di Quella sporca dozzina, i detenuti figli di puttana di Quella sporca ultima meta, gente che si gioca il tutto per tutto perché non ha più nulla da perdere. Una poetica virile e straordinariamente vitale, dove lo sberleffo pungente e sovversivo si accompagna ad uno sguardo tragico. Un universo in cui le donne il più delle volte sono escluse. Oppure, quando sono protagoniste, obbediscono alle stesse dinamiche violente, portando il terreno dello scontro sul piano del conflitto psicologico (Che fine ha fatto Baby Jane?, Piano…piano, dolce Carlotta, The Greatest Mother of 'Em All, L'assassinio di Sister George).  Dinamiche che si ripresentano nei film in cui Aldrich affronta i problemi dell'industria cinematografica. The Big Knife (Il grande coltello, 1955) e il tortuoso, virulento melodramma The Legend of Lylah Clare (Quando muore una stella, 1968) sono la descrizione di un ambiente malato d'ipocrisia e cieco egoismo, in cui dominano le dure leggi del guadagno ed in cui velleità artistiche e talenti sono stritolati in una morsa infernale. E' qui che emerge con più forza l'immagine di Aldrich uomo di cinema, la sua lotta infinita, disperata con gli studios, le ragioni delle grandi Majors hollywoodiane. Quando nell'ultimo, splendido …All the Marbles (California Dolls) descrive il mondo del wrestling femminile in un affresco cupo e pessimista, non fa altro che parlare di quello show business che conosce alla perfezione, alla nausea quasi. E il personaggio di Harry Sears/Peter Falk, con quella sua aria da vittima smaliziata, giocosa e triste al tempo stesso, ha risonanze autobiografiche struggenti. Sears è Aldrich stesso. Un uomo in rivolta, alla ricerca del grande spettacolo, dei cuori e delle menti del pubblico. Contro tutto e tutti.

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