TORINO 31 – Yu Likwai danza sul pilone (Onde – Retrospettiva)

yu likwai
Il futuro perfetto di You Likwai è il ritratto di una nuova visione del mondo, in totale rottura con le categorie tradizionali del pensiero liberale o conservatore, per una diversa consapevolezza rispetto ai suoi maestri predecessori. È il palazzo che implode in Still Life di Jia Zhangke, alle spalle dei protagonisti ignari, fino alla sospensione di un pilone di cemento, in Plastic City, su cui i guerrieri della notte e del giorno incrociano lame e frantumano mitologie di genere.
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yu likwaiMassimo Causo, curatore della sezione "Onde", nell’articolo di presentazione sul catalogo ufficiale del festival, ha titolato l’omaggio al regista e direttore della fotografia di Hong Kong: “You Likwai – Futuro anteriore”. Niente di più affascinante, se poi, tradotto in inglese, viene fuori: “You Likwai – Future Perfect”. Il futuro perfetto  di You Likwai è il ritratto di una nuova visione del mondo, in totale rottura con le categorie tradizionali del pensiero liberale o conservatore, per una diversa consapevolezza rispetto ai suoi maestri predecessori (Ann Hui, Fruit Chan, Wong Karwai, Stanley Kwan…). È il palazzo che implode in Still Life di Jia Zhangke (del quale è il direttore della fotografia in quasi tutte le sue opere), alle spalle dei protagonisti ignari, fino alla sospensione di un pilone di cemento, in Plastic City (oggi amato in toto, ma a Venezia nel 2008 quell'orizzonte di "plastica" di San Paolo finì nella differenziata, che i selvaggi e pochi altri non fanno…) su cui i guerrieri della notte e del giorno incrociano lame e scudisciano mitologie di genere.

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plastic cityYou Likwai sembra voler ricomporre un modello di sviluppo basato sulle ‘peer network’, le reti di pari capaci di trasformare ogni settore economico e politico in una realtà decentralizzata e partecipata, dalla provincia più remota alla metropoli, dallo sguardo nostalgico e malinconico sulla tradizione del suo Paese, alla frenesia di neon digitali e corpi dai legami ambigui, labili, ma allo stesso tempo solidi, insormontabili (ancora Plastic City o All Tomorrow's Parties…). Il futuro perfetto del progresso non solo è ancora possibile, ma può assumere nuove forme. In fondo, lo spazio, il tempo, le relazioni, in tutta la filmografia (tre lungometraggi, due corti e un documentario), sono anime segrete, che attraversano deserti futuristi e archeologie industriali, stratificando forma e contenuto. La forma è il palazzo imploso di cui sopra, il contenuto, sospeso ma non irrimediabilmente instabile, è il pilone, o meglio il guerriero che danza sul pilone, che scorazza in bilico tra i generi, fumettando e digitalizzando poliziesco, noir, melodramma, science-fiction, ufologia, astrazioni di terre lontane, segnate su mappe geografiche, come viaggi (r)esistenziali.

 

Yu Likwai (nato nel 1966 ad Hong Kong), uno dei più autorevoli direttori della fotografia al mondo, oggi, ma probabilmente già ieri, e sicuramente domani (non gira dal 2008), è sempre avanti come regista, perché ha il romanticismo visivo globalizzante innato e la tempesta migratrice che spinge oltre la meta agognata. Il passato nel presente già futuro attraverso gli occhi apparentemente periferici che combinano intimo e sociale, utopie realizzabili e risvegli traumatici. Yu Likwai in Neon Goddesses (1996), documenta  la deriva dei sogni e dei paradisi immaginari, condensa passato e presente con al centro solo donne di provincia in città e ai lati vuoti di coscienza, spazi prima liberi e poi decadenti. Ritratti fagocitati dallo sfondo, meticci di un cinema apparentemente carnale e tragico, ma debordante di corpi schiacciati dal desiderio di evasione ma mai sopraffati dal potere manieristico dello stile. Love Will Tear Us Apart (in Concorso a Cannes nel 1999), mélo post-moderno, scorpora sovrastrutture ad effetto, materializzando sobrietà e spietatezza, patetismo e geometrie, fino a scoprire il tracciato nascosto da Ozu a Fassbinder, fino a Bresson.

 

Con All Tomorrow’s Parties (a Cannes nel 2003 nella sezione Un Certain regard) il freddo di quella struttura auto-riflessiva dei precedenti lavori sembra definitivamente materializzarsi, in una Cina Apocalittica, sotto il dominio della setta Gui Dao. È la condizione umana in un ristretto, ma indefinito, spazio drammatico che espande l’azione, distanzia ancora i suoi corpi, l'azione e sconvolge i piani tra la l'eleganza del passato e la crudezza del presente. Cinema sul cambiamento, nessuna nostalgia del passato ma, identificazione surrettizia sceneggiata per il futuro che diventa presente, il presente passato e il passato un eterno rimpianto. A Simple Life (altro capolavoro con Yu Likwai direttore della fotografia) ha comunque Il tocco del peccato innato, cinema spirituale (come quello di Kitano) che non è propriamente un sogno e neanche un fantasma, a volte vicoli ciechi dell’immaginario, ma il dominio di una scelta esistenziale, di una caparbia e, al tempo stesso, sconvolgente sensualità di sguardo. Microcosmi, sugli spazi stretti, desolanti e scomodi. Sempre corpi in tensione: lo spazio è fatto di intercapedini che si aprono alla precarietà dello sguardo nel cinema, il tempo è in un altro tempo, lotta per fermarsi ma è stravolto dalla natura, dall'uomo che cerca rifugio nella foresta amazzonica, ad oggi ultimo viaggio sciamanico di Plastic City (in Concorso a Venezia nel 2008).

 

Ancora una volta, sembra di restare fermi ma in realtà si è sempre in bilico, vibrando tra l'astratto e il materico, nel parco d'attrazione digitale che abissa il moderno e annichilisce il reale. La prima inquadratura è sul cartello che indica il confine tra il Brasile e il Paraguay, in cui deve ritrovarsi Anthony Wong, gangster edonista dalla immensa spiritualità. Come Jia Zhangke, figlio legittimo della globalizzazione del cinema, viaggia tra i terminali del visionario quotidiano e dell'ordinario onirico. I rumori della metropoli ipertrofica si perdono nel silenzio di paesaggi non virtuali della foresta, "terre" dove si rischia di diventare fantasmi. You Likwai ancora proprio come Jia Zhangke, resuscita la natura morta, riesce a trovar vita anche tra le macerie e la polvere dell'esistenza. Non è cinema parallelo con il suo amico e compagno di lavoro,  ma questa volta cinema di preparazione e azione, dove i mondi si muovono nello stesso spazio. Mondi che si nutrono all'unisono, per l'eternità. È lo spazio desiderato, angusto, agognato che senti di cercare, per una terra che sembra saper far scivolare addosso le ingiustizie, gli squarci della terra che divorano l'opera dell'uomo moderno stratificata nel passato millenario. Dance with me to the End of Love (Cortometraggio presentato a Torino nel 2004) ha ridotto il mondo in una landa desolata e per sopravvivere bisogna scendere nei sotterranei. Cinema muto, nei corridoi della paura, in cui la rappresentazione fuori fuoco crea una discrepanza con la realtà, l’immaginario è la parodia del presente, il guerriero sul pilone era prima Kirin, un orfano dall’origine sconosciuta che prende il nome dalle lattine di birre che raccoglie per guadagnarsi da vivere, fino a quando non incontra la bella nomade Lanlan… il destino è un fiore.  

 
Dance me to your beauty with a burning violin
Dance me through the panic till I'm gathered safely in
Touch me with your naked hand or touch me with your glove
Dance me to the end of love
Dance me to the end of love
Dance me to the end of love
(Leonard Cohen)



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