#Cannes2016 – Tour de France, di Rachid Djaïdani

Vuole essere trasgressivo, dirompente, emozionante. Ma oltre Gérard Depardieu c’è il nulla. Alla Quinzaine

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Gérard Depardieu et rien d’autre. Solo sul suo corpo che nasconde e copre tutto il resto, soprattutto una drammaturgia costruita a casaccio, con dettagli videoclip (il cappello che scivola sull’acqua) e l’energia rap che non prende mai forma.

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Far’Hook è un giovane rapper ventenne. A causa di un regolamento di conti, è costretto a lasciare Parigi per un po’. Il suo produttore Bilal gli propone così di accompagnare il padre per un tor dei porti della francia.

L’atto della creazione. La scrittura, la musica. I dipinti di Vernet diventano solo pallida imitazione. Come i testi per i rapper. Una storia infuocata già bruciata. Rachid Djaïdani si prevalentemente affida alla gestualità per dare forma un’energia che è solo esibizione di uno stile tanto rumoroso quanto vuoto. Depardieu è immenso in ogni inquadratura. Sembra però vivere un film a parte, un viaggio che diventa solo personale e che non possiede neanche quella sorpresa di Saint amour. Basta solo il suo scontro contro tre poliziotti per mostrare come lui sia da una parte e il film completamente dall’altra. Le sue parodie rapper, le sue battute razziste potrebbero fare di Tour de France una specie di commedia demenziale. Purtroppo invece il film si prende maledettamente sul serio. Ed è così preso da se stesso che la gente gli ride dietro e non se ne accorge. Nessuna verità. Vita e poesia mescolati in un mix micidiale, quasi tossico. E il cinema diventa uno specchio che si frantuma in mille pezzi. Tour de France vuole essere trasgressivo, dirompente, emozionante. Ma sbaglia il bersaglio. anticipa e non risolve conflitti basilari (come quello padre-figlio). Problema di una scrittura che è vissuta solo su stati emozionali. Senza i necessari tagli e la caratterizzazione dei personaggi. Gérard Depardieu et rien d’autre.

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