Trieste Film Festival 20 – Il cinema e Joyce (prima parte)

james joyce

La retrospettiva curata da Elisabetta D’Erme ha proposto una esaustiva rassegna di opere ispirate o tratte dalle opere di James Joyce. La riscoperta di alcuni film sotto questa luce e la visione di altri che costituiscono vere e proprie rarità hanno reso la sezione del festival di sicuro interesse.

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Chiunque abbia mai frequentato, perfino occasionalmente, l’opera di James Joyce (1882 – 1941), avrà la possibilità di misurare la difficoltà di ridurre per il cinema le sue opere. La retrospettiva di Trieste e il parallelo convegno, ci hanno permesso di ricondurre però la considerazione ad un paradosso. L’elaborazione artistica di Joyce ha attinto largamente dal cinema delle origini e la sua scrittura ne è rimasta influenzata e pertanto l’immagine, il cinema ha aiutato la sua evoluzione artistica, ma l’elemento, utile per la comprensione della sua struttura verbale e sintattica, non aiuta il cineasta che desidera misurarsi con i suoi romanzi. Probabilmente perché l’influenza del cinema sulla scrittura raggiungeva un livello talmente profondo da essere pienamente assimilato dalla costruzione letteraria. Tutto ciò contribuisce a creare delle strutture impenetrabili e refrattarie ad una riduzione cinematografica che non sia limitata alla narrazione o al tentativo di contestualizzare in immagini, con arbitrario intervento, la polifonica scrittura dell’autore irlandese.

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In massima parte i film in rassegna a Trieste, che ha raccolto tutta la possibile produzione in tema, soffrono di questa insanabile contrapposizione ad esclusione di Nora che racconta del soggiorno a Trieste (1904 – 1915) della coppia di esuli volontari Joyce e sua moglie Nora Barnacle e di Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, la cui visione è stata arricchita dalla nuova luce gettata sull’opera del maestro italiano.

D’altra parte è difficile ritrovare in questi film o comunque in tutti gli altri che a memoria si possano ricordare, criteri di scelta differenti nel momento in cui il cinema ha messo in scena il grande romanzo moderno. Scelte e decisioni che alleggeriscono la visione rendendola fruibile, ma penalizzano spesso il nucleo centrale dell’opera, il suo spirito e la sua scrittura. Talvolta la genialità supplisce alle carenze di questo canone espressivo.

Due esempi: la genialià di Orson Welles nel 1962 gli consente di mettere in scena Il processo di Franz Kafka nel quale è riuscito ad immaginare un universo iperbolico molto simile a quello creato dallo scrittore ceco; l’onesta artigianalità di Volker Schlöndorff nel 1984 gli fa girare Un amore di Swann in cui si limita a riassumere gli eventi con pedissequa consequenzialità trasformando il film in un ennesimo racconto in costume d’epoca.

Joseph Strick, uno dei primi registi americani ad essersi occupato con metodo alla trasposizione cinematografica del romanzo moderno, nel 1967 ha realizzato Ulysses, in bianco e nero, ambientato nella Dublino dello stesso periodo di realizzazione e senza alcun riferimento alla città del 1904 data nella quale è ambientato il romanzo di Joyce. Una scelta, pare, dettata dalla carenza di denaro. I problemi del film però non sono questi e riguardano, piuttosto, l’essersi adagiato su una forma consueta e convenzionale che poco rischia in termini di messa in scena nel confronto con un (iper) testo così complesso.

Strick e il suo sceneggiatore (Fred Haines) tirano fuori dall’Ulisse ciò che è loro necessario: la trama, il racconto, la sequenza degli avvenimenti senza riuscire a restituire allo spettatore lo spirito del libro e soprattutto la sua ipertestuale complessità. Anche in relazione alla definizione del profilo dei personaggi vi è da dire che se è vero che funzionano quelli di Bloom (Milo O’ Shea) e Molly (Barbara Jefford) poco credibile appare il Dedalus di Maurice Roëves che, come ha avuto modo di sottolineare un relatore al convegno joyciano, sembra il quinto dei Beatles, privo di quella profondità e di quella ribellione intellettuale della quale è invece pervaso il personaggio del romanzo.

Degli stessi problemi soffre l’altro film in rassegna Bloom di Sean Walsh del 2004.

Il film con Stephen Rea nella parte di Bloom, che in questa trasposizione recupera i baffetti del personaggio che erano andati perduti nella precedente, è uscito in Irlanda (e mai in Italia) in coincidenza del centesimo anniversario del 16 giugno 1904 data di svolgimento della vicenda. Scritto in sei anni dallo stesso regista forse sotto qualche aspetto sembra mettere a frutto la lezione e compie un’operazione più consona all’opera nel delineare il carattere di Stephen Dedalus. Ma lavora anche maggiormente sulla trasposizione non strettamente narrativa riassorbendo, all’interno di un credibile dispositivo verbale che interviene improvvisamente e dinamicamente collabora con le immagini, il flusso di coscienza che tanto famoso ha reso il romanzo di Joyce. Questo lavoro rispetta la struttura dell’opera che punta su questo elemento per costruire la conoscenza del protagonista.

Le pecche del film di Walsh restano invece riassumibili soprattutto nell’avere rispettato, troppo pedissequamente, il precedente film di Strick. Non sappiamo se ciò fosse o meno nelle intenzioni del regista canadese, sappiamo però che questo è il risultato finale per lo spettatore aggravato dall’avere visto i film in rapida successione. Bloom infatti, si sofferma sugli stessi episodi gia oggetto di messa in scena in Ulysses, solo si concede qualche licenza in più, ma è anche vero che sono trascorsi trentasei anni.

Nei due film una precipua e rilevante differenza va ricercata nella soluzione scelta per girare il famoso capitolo finale di Molly Bloom che enfatizza il flusso di coscienza fino a farlo diventare unica tecnica di scrittura del capitolo. E stavolta la differenza è a vantaggio del film di Strick.

Sean Walsh sceglie una soluzione teatrale che rende protagonista il personaggio, anzi l’attrice (Angeline Ball) esaltandone le forme procaci per cui il corpo fa da perno all’intera sequenza che si chiude svelando il set. Una scelta che lascia poco spazio alle potenzialità dell’immagine che dovrebbe filtrare i pensieri di Molly ricomponendoli, in forma cinematografica, in una ideale scrittura, per l’appunto, per immagini.

Ben differente, invece, la soluzione inventata da Strick che decide di puntare decisamente sulle immagini, attraverso un organico e misurato puzzle, lasciando quasi in ombra il personaggio. Scelta che peraltro troverebbe l’apprezzamento di Joyce il quale era solito dire che l’autore dovrebbe pian piano uscire dall’opera che sta scrivendo e mettersi da una parte a curarsi le unghie.

Strick affida, per una durata almeno doppia di quella dedicata da Walsh, proprio alle immagini i pensieri di Molly che si susseguono impetuosi e privi di qualsiasi censura. Anche su questo va dato atto al regista americano di avere sfidato i tempi e di non avere avuto, almeno per questa lunga sequenza, le remore di Walsh.

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