True Detective 2, episodio 1: The Western Book of the Dead

Vi aspettiamo questa sera con visioni e analisi per raccontare insieme la nuova creatura di Nic Pizzolatto, alle h 20.30 da Sentieri Selvaggi a Roma, a ingresso gratuito

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In simultanea con la messa in onda statunitense, la tv satellitare italiana manda in onda la seconda stagione di True Detective: prossimo appuntamento per lunedì 29 giugno, con la versione doppiata del primo episodio, e la seconda puntata con sottotitoli.
Nell’attesa, discutiamo di The Western Book of the Dead questa sera a partire dalle h 20.30 da Sentieri Selvaggi, via Carlo Botta 19 a Roma, a ingresso gratuito.

Ecco alcuni spunti sull’episodio di partenza.

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Il momento fondamentale in cui Nic Pizzolatto si smarca definitivamente dall’immaginario della prima stagione di True Detective per dare il via alle danze dei suoi nuovi personaggi è l’introduzione del registratorino tascabile che Ray Velcoro tira fuori mentre è a colloquio con quella che sembra essere un’operatrice per l’affidamento del figlio preadolescente, problematico e evidentemente disagiato.
Lo slittamento più importante, l’episodio d’apertura The western book of the dead lo fa infatti dal punto di vista del dispositivo messo in campo da Pizzolatto e Justin Lin.
La sequenza di cui parliamo è l’unica a ricordare direttamente la situazione della testimonianza-confessione-digressione su cui si basava la struttura del prototipo: Rust e Marty, di fronte alle handycam in scena e ai volti degli agenti che conducevano l’indagine sul loro vecchio caso, fornivano a loro e a noi spettatori una o più versioni, menzognere o meno, dei fatti. Qui, Farrell/Velcoro replica per un breve momento la formula dell’interrogatorio ma senza la registrazione, che era uno degli elementi cardine, a più livelli, dell’universo della prima stagione. Perciò il bisogno di ricorrere al tape recorder, come a detta di Ray “suggeriscono i libri”.
E’ già meravigliosamente struggente quanto scopertamente letterario questo personaggio di sbirro dedito alla bottiglia e al tirapugni, malconcio, stropicciato e disperato, a cui Colin Farrell sembra voler affidare lo slancio di una rivalsa attoriale ricercata con una forza espressiva nuova negli occhi: è talmente solo, Ray Velcoro, che a differenza del suo compare Rust Cohle non ha nemmeno nessuno come passeggero in auto con cui lasciarsi andare a monologhi di esistenzialismo spicciolo. Le sue rivelazioni le fa al registratore tascabile, mentre aspetta nell’abitacolo del veicolo di entrare in azione.

E’ un altro aspetto importante di questa struttura rinnovata: l’interazione tra Rust e Marty permetteva a Pizzolatto/Fukunaga di imbastire una serie di scambi e rimpalli espliciti continui sulle traiettorie private e professionali dei due detective. Qui, prima del finale che con una magia di sceneggiatura porta gli sguardi di tutti i protagonisti a incrociarsi per la prima volta (tra parentesi al cospetto di un paio di orbite vuote, bruciate con l’acido…), ogni personaggio è raccontato in una situazione di desolata solitudine, nonostante le caratterizzazioni di contorno. Dal caleidoscopio delle verità possibili nell’arco della prima stagione, alla registrazione diretta e univoca per appunti smozzicati e frammentari (che Velcoro “salva” su nastro per il figlio) di queste nuove storie.

Come lasciare allora fluire l’elefantiaca scrittura evocativa di Pizzolatto?
Justin Lin, nei suoi momenti migliori, lambisce la monoliticità morale di un primo James Mangold, per il resto fa un lavoro secco e senza fronzoli con la sensibilità di un Gavin O’Connor, o forse addirittura di Scott Cooper.
Poco spazio per le elucubrazioni, insomma, ma nei casi soprattutto del gangster palazzinaro di Vince Vaughn o della poliziotta tosta con famiglia di frikkettoni californiani Rachel McAdams la serie sembra essere comunque più interessata ad imbastire un gigantesco omaggio hard boiled, tra edilizia malavitosa, pornografia, improbabili sette misticheggianti di santoni new age, ma senza (grazie a dio) ironia postmoderna alla Vizio di Forma.
Diventa a questo punto centrale seguire l’evoluzione dell’agente dell’highway patrol Paul Woodrugh. Taylor Kitsch è per il piccolo schermo USA una star decisamente più brillante in confronto alla sua popolarità dalle nostre parti, e il suo Woodrugh è il vero scatto di nervi imprevisto e imprevedibile della prima puntata, forse l’elemento più moderno e al momento meno mappabile dell’insieme (la gag con l’attricetta ai domiciliari, poi l’accenno alle pillole, la folle corsa suicida in moto nella notte…). Fatto salvo l’affetto incommensurabile che qui si porta per l’icona michaelmanniana di Colin Farrell, chi scrive scommette per i prossimi episodi sulla miccia incontrollabile e incendiaria del giovane Woodrugh.
Staremo a vedere.

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