True Detective 2, episodio 7. Black Maps and Motel Rooms

Dopo averci gettato fumo negli occhi con i complessi rimandi al genere, avanzando verso l’epilogo Pizzolatto scosta il sipario e rivela quello che è sempre stato il cuore delle sue narrazioni.

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Out of the wood. Fuori dal bosco, dai ricordi rimossi di Ani Bezzerides, ma anche dalla selva di riferimenti, di citazioni, di rimandi che hanno fatto di questa seconda stagione un complesso, a tratti fin troppo scaltro e consapevole, viaggio nei generi, con la rilettura delle intricate trame del noir da Chandler a Ellroy nell’ottica cinematografica di Mann, Friedkin, Lynch. Una botta, per lo spettatore cinefilo, più potente e spiazzante della “pure Molly” inalata da Ani nel suo incubo a occhi aperti, da cui, come lei, stiamo faticando a riprenderci.

Pizzolatto è il Grande Mago capace di gettare fumo negli occhi con la sua scrittura vorticosa, capace di trascinarti lì dove vuole, al pari dei suoi stessi protagonisti, manovrati da trame politiche e disegni divini ben più potenti della loro volontà. Eppure sa quando è il momento di farti sbirciare dietro la tenda e rivelare il trucco, senza che l’illusione e la fascinazione vengano scalfite. Black Maps and Motel Rooms è proprio questo: il momento in cui Pizzolatto scosta il sipario e conduce lo spettatore nel suo laboratorio, ricongiungendosi alla prima stagione, rivelando quello che è sempre stato il cuore delle sue narrazioni. Una storia di padri e figli.

Non c’è mai stato altro. Tolta la patina da new horror della prima stagione, e quella noir della seconda, cos’altro erano Rust Cohle e Marty Hart se non due padri? Uno annichilito dal senso di colpa per non aver protetto la vita della figlia, l’altro sabotatore del suo stesso nido familiare? E Semyon, potenziale padre perfetto di figli non suoi? O Velcoro, interamente definito dal suo essere/non essere padre e, infine, Woodrugh, che nella paternità cerca una via di fuga alla propria natura?

Quello di Pizzolatto è un universo tragico, segnato dal senso di colpa di questi padri verso i propri figli, reali, immaginari, possibili. Da vuoti esistenziali: “Quanto ti manca? Cosa? Tutto…” si dicono Velcoro e Ani in una delle scene emotivamente più potenti dell’episodio, in questa splendida sottotrama mélo, portata avanti impercettibilmente.

Dall’impossibilità di essere felici insieme, come mostrano gli attimi di calore familiare subito recisi: gli abbracci “tre in una giornata, un record per te” di Ani al padre e alla sorella, di Woodrugh alla madre e alla compagna, protagonista del bellissimo cortocircuito tra la propria gravidanza e la maternità triste della Natalie Wood di Splendore nell’erba guardato di notte in tv.

Ed ecco che allora il noir metropolitano si defila, svanendo insieme alle visioni dall’alto della città come crocevia ingarbugliato di strade e destini, immagine-simbolo della stagione qui per la prima volta significativamente assente. Mentre, fra i colpi di scena della sequenza d’azione finale firmata da Daniel Attias, notevole cliffhanger per l’epilogo, riacquista corpo il rimosso, con una improvvisa sterzata del plot verso un’infanzia nuovamente violata e la sua, implacabile, vendetta.

 

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