No, non ci sono stelle ad illuminare le notti californiane di Omega Station.
Nella materia disperatamente malata di questa seconda stagione di True Detective si entra con lo sguardo puntato verso il basso, seguendo le plongée su quelle trame di cemento, desolazione e corruzione che, dopo il detour dell’episodio precedente, vanno allargandosi sempre più, tracciando nello spazio la mappatura di un compendio sul noir. In quest’ultimo capitolo, le derivazioni narrative apertamente ellroyane tornano a

snodarsi lungo visioni che rimandano, in un gioco cinefilo di citazioni incrociate, moltiplicate all’infinito da John Crowley, a Micheal Mann, a Lynch a Friedkin, a Paul Schrader, per risalire ancora più indietro, fino a Sunset Boulevard o Casablanca.
Giunto al suo epilogo, il disegno di Nic Pizzolato è ormai chiaro. Non si tratta di fondare una nuova sintassi, piuttosto, attraverso un sistema di raddoppiamenti che continua a riavvolgersi su se stesso, che va disperdendo le identità, che sovrappone la proliferazione dei suoi significati, si tratta di continuare ad espandere, fino a lambirne i limiti, le traiettorie di quell’immaginario noir sul quale l’America non ha mai smesso di scrivere la propria storia.
Per quanto la terra maledetta di True Detective vacilli, basta guardare lo struggente inizio di quest’ultimo episodio, con Velcoro e Bezzerides a far da margini che s’incontrano, rimescolando le linee spezzate delle loro esistenze, o quell’ultimo saluto alla stazione tra Semyon e sua moglie Jordan, per quanto la superficie s’incurvi, sotto il peso spiazzante degli affetti, un peso quasi più doloroso del senso di perdita, perché apre alla vita, quando invece solo ai morti, Woodrugh lo sa bene, non si può più far del male, a rimanere è, infine, solo l’implacabilità di un’immagine circolare, dove si gira a vuoto, fino a prosciugarsi l’anima.
Sta qui l’insidiosità della scrittura di Pizzolato che, con il suo lento snodarsi di linee aggrovigliate, di voci sfuggenti e spezzate, di rotture e indicazioni, ci invita ad entrare nel suo disegno, per poi rivelarci la
buia impraticabilità di una superficie inaccessibile, che ci conduce sull’orlo dell’angoscia. “La registrazione diretta e univoca per appunti smozzicati e frammentari di queste nuove storie” che Ray Velcoro incide per suo figlio, finisce per diventare solo un messaggio impossibile da recapitare.
Giunti sul baratro del nulla, ecco dunque che l’accumulo di frammenti di formule noir assume tutto l’aspetto di una materia sabbiosa, dove ogni fuga nasconde un falso movimento, perché non si può far altro che continuare a sprofondare, alla ricerca di una verità impossibile da afferrare. E allora, se non occorre affatto scavare per trovare l’inferno, a nulla servono quegli ultimi atti di resistenza di Velcoro e Semyon che Crowley lascia sconfinare in un immaginario western debitore di Anthony Mann e Raoul Walsh.
La redenzione è un desiderio impraticabile, capace unicamente di svelare come l’Incubo dell’America, un incubo che si è fatto abitudine che non smette di ingozzarsi, sia molto più reale del suo Sogno.