TS+FF 2016 – Angeli e Ombre. I film di Harry Cleven, Babak Anvari, Joyce A. Nashawati

Ecco tre pellicole protagoniste al recente Trieste Science+Fiction Festival. Una delicata fiaba fantastica franco-belga, un agghiacciante horror iraniano ed un misterioso sci-fi ambientato in Grecia.

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Ecco tre film proiettati al Trieste Science+Fiction Festival 2016. Tre storie radicalmente diverse, tre modi differenti di rappresentare il “fantastico”.

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Presentato in anteprima mondiale al 49° Festival Internacional de Cinema Fantàstic de Catalunya – Sitges, Mon Ange è il terzo lungometraggio del regista belga Harry Cleven (Pourquoi se marier le jour de la fin du monde?, 2000; Trouble, 2005). Si tratta di una delicata e metaforica fiaba con protagonisti un ragazzo invisibile ed una fanciulla cieca. Quella di Cleven è una visione filosofica che passa attraverso il senso e la percezione: l’esatto opposto del credo razionale cartesiano. Per sua stessa ammissione, il regista si dimostra vicino alla corrente di pensiero del filosofo francese di origini ebraico-lituane Emmanuel Lévinas: “nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’epifania del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto”. Un’epifania che coincide con il momento della scoperta, della rivelazione della presenza dell’altro, con tutto il suo universo interiore, con tutta la sua umanità.

Il soggetto del film è stato scritto da Thomas Gunzig, mentre la produzione è stata curata da Jaco Van Dormael in collaborazione con Olivier Rausin: la stessa coppia che ha firmato l’acclamato Dio esiste e vive a Bruxelles, presentato nella scorsa edizione del Trieste Science+Fiction Festival. Spiega Harry Cleven: “C’è voluto del tempo per sviluppare la storia perché sia io che Thomas eravamo impegnati in altri progetti. In due mesi ho scritto la sceneggiatura. Quando Jaco l’ha letta se n’è innamorato e ha manifestato l’intenzione di produrre il film, offrendosi di sottoporre il progetto alla Commissione per trovare il budget necessario. A poco a poco, la locomotiva è stata avviata e gradualmente le vetture si sono agganciate: è entrata in gioco la RTBF e sono intervenuti la Wallimage e il produttore francese Daniel Marquet. Magari fosse sempre così facile reperire i fondi per promuovere un film, è stato così inusuale da sembrare magico”.

mon-angeLa storia: Louise, devastata dal dolore a causa della misteriosa sparizione del suo amante – illusionista di professione – viene internata in un ospedale psichiatrico. Nove mesi dopo dà alla luce Mon Ange, un bambino che si rivela essere invisibile. Per proteggerlo dalla crudeltà del mondo esterno, la madre cela a tutti la sua esistenza. Il bambino cresce nella stanza, ma è incuriosito dalla vita che si svolge all’esterno: attraverso la finestra comincia quotidianamente a spiare Madeleine, una bambina cieca che vive in una villetta di fronte. Fattosi coraggio, Mon Ange decide di incontrarla senza però rivelarle il suo “segreto”. I due presto si innamorano e diventano inseparabili, anche se Madeleine non può sapere dell’invisibilità del ragazzo. Un giorno, Madeleine rivela a Mon Ange che presto, grazie ad un’operazione chirurgica, potrà tornare a vedere.

Mon Ange ha la delicatezza “tangibile” di una poesia di Prévert, la sensualità epidermica di un dipinto di Hayez, oltre che una cifra stilistica e di contenuti tipica del cinema d’autore francese, spesso alle prese con i sospiri e le pulsioni adolescenziali legate alla tematica dell’amour fou. Il film di Cleven è una macchina da presa (talvolta sfocata per riprendere la cute ed i capelli) che mostra l’invisibile attraverso la percezione ed il senso, rivelando un gusto estetico squisitamente pittorico e fotografico (notevole il lavoro di documentazione visiva realizzato dal regista, che si è detto ispirato dal fotografo americano Saul Leiter. Direttore della fotografia nel film è Juliette Van Dormael, la giovane figlia del produttore), affidato a pochi colori dominanti (verde, blu e rosso, come i capelli della protagonista) e a pochi elementi scenografici di matrice favolistica (la stanza chiusa, la villa con il suo giardino, il bosco, il lago): “Ho voluto rappresentare – spiega il regista – quella che è la mia teoria percettiva dei rapporti umani, articolata su tre livelli. I rapporti sociali, svelati attraverso la vista e l’udito; i rapporti di amicizia, veicolati principalmente attraverso l’olfatto; le relazioni sentimentali, nelle quali si esprimono pienamente il gusto ed il tatto”. Per interpretare il ruolo di Madeleine (a proposito, pare casuale il riferimento a Marcel Proust!) nelle tre fasi dell’infanzia, della pubertà e della prima maturità – un ruolo centrale perché in sostanza regge da sola il film – sono state scelte tre attrici diverse: Hanna Boudreau (Madeleine bambina), Maya Dory (Madeleine adolescente) e la bellissima Fleur Geffier (Madeleine ragazza).

Progetti futuri? “Io ed Olivier – ci racconta il regista – stiamo lavorando ad un altro soggetto. Richiederà molti soldi, non sarà facile portarlo avanti e trovare un produttore. Si tratta di un tema fantastico, decisamente lontano dai gusti del pubblico francese: una sorta di amore favoloso basato sui viaggi nel tempo, una storia piuttosto folle. Un uomo riceve un colpo in testa, cade e si risveglia nel 1953 in Ungheria. Attorno a lui un trattore ed una donna in bicicletta”. Staremo a vedere.

under-the-shadow-3Presentato in anteprima italiana al 21° Milano Film Festival e vincitore di premi e riconoscimenti presso numerosi festival internazionali (Festival du Film Fantastique de Neuchâtel, Montclair Film Festival, International Fantastic Film Festival di Bucheon, Fantaspoa di Porto Alegre), Under the Shadow è un film horror in lingua farsi scritto e diretto dal giovane film-maker iraniano Babak Anvari. Un’opera prima di coinvolgente (e sconvolgente) tensione narrativa e di notevole complessità drammaturgica. Candidato all’Oscar come miglior film straniero, il film è stato presentato in anteprima mondiale nel gennaio 2016 al Sundance Film Festival di Park City ed è arrivato nelle sale cinematografiche americane il 7 ottobre scorso.

Attivo a Teheran e poi a Londra, dove vive dal 2002, Anvari ha studiato produzione cinematografica e televisiva presso l’Università di Westminster. Autore di cortometraggi (anche di animazione), ha ottenuto un clamoroso successo di critica e di pubblico con Two & Two, proiettato nei più importanti festival internazionali e nominato ai BAFTA 2011 come miglior cortometraggio.

Teheran, anni Ottanta. Shideh (una bravissima Narges Rashidi) vive in mezzo al caos della guerra tra Iran e Iraq. Accusata di sovversione dal governo post-rivoluzionario per la sua adesione alle manifestazioni studentesche ed inserita nella lista nera della sua università, la giovane donna non può proseguire gli studi di medicina e vive in un perenne stato di frustrazione, acuito dal fatto che il marito Iraj (Bobby Naderi) – che invece è riuscito a laurearsi ed a svolgere la professione di medico – è chiamato a prestare assistenza sul fronte di guerra e la lascia sola con la seienne figlioletta, Dorsa (Avin Manshadi). Subito dopo che un missile colpisce il loro condominio, rimanendo inesploso, la bambina si ammala inspiegabilmente ed il suo comportamento diventa sempre più strano. Alla ricerca di risposte, Shideh apprende da una vicina superstiziosa che il missile inesploso è maledetto e che potrebbe aver trasportato dei djinn, spiriti malevoli che viaggiano nel vento. Inizialmente scettica, Shideh sprofonda in uno stato di crescente paranoia ed ossessione, arrivando alla convinzione di non avere altra scelta che quella di affrontare il male per salvare se stessa e sua figlia.

under-the-shadow-5Girato ad Amman, in Giordania, l’opera di debutto di Anvari è una personale rielaborazione del topos letterario e cinematografico della haunted house e delle possessioni demoniache, declinato attraverso la sensibilità e le modalità espressive della cultura iraniana. Il contesto storico è quello dei profondi sconvolgimenti politici e sociali che hanno attraversato – ed insanguinato – il paese dei pāsdārān e degli āyatollāh tra il 1978 ed il 1988: dapprima la rivoluzione islamica che trasformò la monarchia in una repubblica ispirata alla legge coranica e poi la terribile guerra con l’Iraq, nota come la “prima guerra del golfo”. Il punto di vista narrativo è quello femminile e concerne il ruolo della donna nella società iraniana in una delicatissima fase di cambiamento e di transizione. Anvari mescola con estrema abilità di scrittura e notevole capacità registica ordinario e straordinario, quotidiano e prodigioso, creando un elaborato meccanismo di suspense che fa entrare lo spettatore nelle casa e lo rende partecipe delle vicende che vi si svolgono: le discussioni familiari della donna con il coniuge e con la figlia, le frustrazioni personali, le relazioni con gli inquilini del condominio hanno uno spessore drammaturgico e un’importanza narrativa non minore delle inquietanti – e, a tratti, davvero agghiaccianti – manifestazioni soprannaturali. Il palazzo in cui vive Shideh rappresenta un’efficace metafora della condizione esistenziale: sul punto di esplodere a più riprese, finisce il più delle volte per implodere, le sue voragini e le sue crepe sono violazioni di un’intimità dall’esterno e, al tempo stesso, cicatrici e suture sulla pelle. Il djinn, entità soprannaturale della tradizione preislamica e poi anche islamica e menzionato spesso nella celebre raccolta di novelle de Le Mille e una Notte, è un “genio” accreditato di notevole potenza ed in grado di esprimere una devastante e spesso mortale cattiveria. Capace di presentarsi sotto molteplici aspetti esteriori – la sua caratteristica principale è proprio la mutevolezza e l’inafferrabilità – sarebbe stato “depotenziato” nella sua malefica carica distruttiva dall’Islam. Per possedere l’anima di una persona, ruba un oggetto a cui questa è particolarmente legata o che ha un forte valore sentimentale (nel film, la bambola Kimia della piccola Dorsa). Anvari mette in scena il male nelle sue varie declinazioni: l’orrore socio-politico ed economico della guerra, l’ottusità dell’uomo, la “colpa” da scontare per chi si oppone al sistema, le piccole o grandi frustrazioni quotidiane di una famiglia, le ripicche e le inconfessate gelosie di una coppia di amanti e, solo in ultimo, la sconvolgente presenza demoniaca che dal piano allegorico prende lentamente “corpo” sul piano reale. Under the Shadow si distingue profondamente dagli horror americani del filone soprannaturale (tanto per citarne uno, L’evocazione – The Conjuring, 2013, di James Wan): non ha bisogno di trucchi particolari e di impennate di ritmo per incutere angoscia e spavento. Un sottile senso di smarrimento e di terrore pervade la pellicola sin dall’inizio ed è proprio questo che la rende più che un semplice film dell’orrore, piuttosto il dramma esistenziale di un intero popolo e di una piccola comunità quale è un condominio.

locandina-blind-sunOpera prima della regista libanese di origine franco-greca Joyce A. Nashawati, Blind Sun (qui il trailer) è stato proiettato in vari festival tra la fine del 2015 e tutto il 2016, ricevendo riconoscimenti e menzioni speciali al 56° Festival Internazionale del Cinema di Salonicco (nella sezione Greek Panorama), al 14° International Film Festival di Bruxelles e al 36° Festival Internacional de Cinema di Porto. Distribuito in Francia a partire dalla scorsa primavera, il film è stato presentato a giugno all’International Film Festival di Toronto (nella sezione Avant-Garde).

È una torrida estate in Grecia. La carenza d’acqua ed i tagli all’energia elettrica determinano una situazione di crescente tensione sociale. Per fronteggiare l’ondata di calore, lo Stato ricorre a misure drastiche. Ashraf Idriss (un sorprendente Ziad Bakri) è un giovane straniero di origine turca con un lavoro apparentemente semplice: house sitter, vale a dire si prende cura dell’isolata villa al mare di una coppia di turisti francesi tornati temporaneamente in patria (Louis-Do de Lencquesaing e Gwendoline Hamon). Le cose si complicano quando un poliziotto sadico (Yannis Stankoglou) gli requisisce il permesso di soggiorno: una burocrazia ostile ed il rancore di una società al collasso e senza punti di riferimento lasciano il giovane senza vie di fuga.

Blind Sun racconta di un mondo pre-apocalittico in cui società e clima procedono di pari passo verso un inesorabile sconvolgimento di segno negativo, producendo sull’uomo un effetto di progressiva disintegrazione psicologica. Non c’è azione nel corso del film, ma un senso costante di immobilità, costrizione, disfacimento ed intorpidimento della volontà. “Un incubo individuale in un contesto di ansia collettiva”, spiega la regista. Sullo sfondo, un concentrato quanto mai attuale di riferimenti alla situazione politica, sociale, economica, ambientale: la crisi dei rifugiati che mette in ginocchio le impalcature politiche della costruzione europea; le questioni climatiche ed ecologiche, come la carenza delle riserve d’acqua e di quelle energetiche, la desertificazione e gli incendi; il default del sistema economico (non a caso greco) con migliaia di posti di lavoro polverizzati e di vite individuali sull’orlo del baratro. Al centro della scena, un’unica location: una villa moderna dotata di ogni comfort, eppure incapace di garantire privacy e protezione a chi la abita. Ed è all’interno di questa dimora che si consuma il dramma di Ashraf, in una dimensione che la regista dimostra di tenere sapientemente sospesa tra allucinazione, squilibrio mentale ed alterazione delle facoltà cognitive e sensoriali e cruda realtà che non offre riscatto sociale e neppure un alloggio sicuro. Blind Sun coniuga la metafora esistenziale densa di riflessioni filosofiche alla Tarkovskij e alla Antonioni con il linguaggio tecnico di certo cinema sperimentale, ammiccando – senza troppa convinzione – al thriller distopico. Volutamente reticente sulle storie personali dei protagonisti, il film corre indubbiamente il rischio di dilatarsi in una parabola ontologica un tantino pretenziosa, ma ciò non gli impedisce di ammantarsi di un notevole fascino avvolgente e rarefatto.

blind-sunSpiega la regista: “L’idea del film mi è venuta durante una vacanza in Grecia, terra nella quale sono cresciuta. Faceva molto caldo, divampò un terribile incendiò, il sole si fece scuro, il cielo assunse uno strano color arancione. Tutto era al tempo stesso spaventoso ed affascinante: nel giro di poche ore, la luce aveva radicalmente modificato lo scenario circostante. Ho usato gli elementi naturali alla stregua di una lente d’ingrandimento attraverso cui esprimere la mia visione sui problemi dell’attualità”. Della fotografia del film si è occupato un maestro noto a livello internazionale come Yorços Arvanitis: “Ho avuto inizialmente timore a contattarlo, anche perché lui ha spesso rappresentato una Grecia grigia, mentre io cercavo una luce il più naturale e realistica possibile. Ma il suo enorme talento gli ha consentito di adattarsi alla mia ricerca. D’altra parte, Arvanitis non ha una cifra stilistica sempre uguale a se stessa e ha lavorato in numerosi film di generi diversi, quindi sa capire le esigenze di un regista. Abbiamo privilegiato le visuali a schermo panoramico e abbiamo aggiunto alla macchina una grana grossa, tipo pellicola, per dare un effetto più organico rispetto a quello digitale. Molte scene sono state girate in controluce per catturare l’effetto luminoso funzionale alla mia idea”. Joyce ci parla poi del rapporto con gli attori sul set: “Mi stimolava il fatto che il film, trattando di stranieri, fosse interpretato da attori di varie nazionalità. Bakri è un attore palestinese, Mimi Denissi (Katerina) è una nota attrice greca di serie televisive. Louis-Do e Gwendoline sono francesi. Si tratta di scuole di recitazione estremamente diverse: Bakri ha un modo di recitare molto realistico e naturale, i greci sono piuttosto teatrali ed enfatici, i francesi più sobri e tecnici. Ho dovuto quindi bilanciare questi approcci differenti”.

Il film ha un inizio quasi western, con lo straniero che arriva in una città ostile”, prosegue la regista. “In esso è molto importante il rapporto tra interni ed esterni. Naturalmente, amo molto il cinema di Antonioni con il suo modernismo, le sue geometrie e la sua spazialità. A livello estetico mi ha influenzato molto un pittore greco moderno, Yiannis Moralis. Ho cercato di girare il film in ambientazioni create da architetti modernisti per sfruttare le potenzialità cinematografiche della distribuzione degli spazi, dei formati, delle linee”. In conclusione, la regista ci presenta la sua sfida futura: “Con i prossimi film voglio continuare a stravolgere i canoni del genere horror, amo il giallo all’italiana ed i set mediterranei. Niente atmosfere gotiche, castelli, foreste ombrose: la paura e l’orrore alla luce del sole”. Di un sole cocente, si direbbe.

 

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