TS+FF 2018 – Spazio Italia: i film di Alberto Gelpi e Antonaci/Mandalà/Lascar

La Voce del Lupo e You Die. Scarichi l’App e Poi Muori, proiettati a Trieste, rappresentano due interessanti approcci italiani al cinema di genere. Dal mito del licantropo ad una demoniaca app

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Negli ultimi anni il panorama indipendente della cinematografia italiana di genere ha mostrato una certa vivacità di approcci e di stili ed una discreta qualità complessiva che, se non segnano proprio una “rinascenza” degli splendori che furono nei decenni a cavallo tra anni Sessanta ed Ottanta, lanciano comunque un segnale di vitalità e di coraggio nel tentativo e con l’obiettivo – poco importa se non sempre centrato – di “riappropriarsi” di un terreno di sperimentazione e di un linguaggio filmico storicamente appannaggio di altri paesi, specialmente nell’ambito del “fantastico”. Ci riferiamo, in particolare, a titoli recenti come Ulysses: A Dark Odyssey di Federico Alotto, Caina di Stefano Amatucci, Monolith di Ivan Silvestrini, Alienween di Federico Sfascia, Go Home – A Casa Loro di Luna Gualano (pure proiettato a Trieste), The End? L’Inferno Fuori di Daniele Misischia. Tra le proposte italiane della 18a edizione della rassegna triestina, due titoli hanno catturato l’attenzione e acceso una certa curiosità, uno per una certa ambizione autoriale nell’affrontare una tematica orrorifica assai poco scandagliata alle nostre latitudini – quella del licantropo e della dicotomia uomo vs. bestia – l’altro per la sorprendente volontà di confrontarsi con un tipo di horror tipicamente statunitense o nipponico, tra realtà aumentata e diavolerie tecnologiche.

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La Voce del Lupo rappresenta l’esordio nel lungometraggio del quarantenne romano Alberto Gelpi, per anni attivo in post-produzione come grafico 3D per la realizzazione di videogame ed effetti speciali per film e commercial (nel 1997 ha fondato la Dreamlike Visions, società di post-produzione rimasta attiva fino al 2006) e successivamente come montatore nell’ambito pubblicitario per importanti brand e compagnie internazionali. Specializzatosi in Emotional and Visual Storytelling, nel 2011 scrive la sceneggiatura del cortometraggio Follia in LA MAGGIORE, selezionata alla rassegna “Racconti di Cinema” di Venosa. Già regista e sceneggiatore del documentario Origini – Heritage (2017), incentrato sulla migrazione italiana in Scozia, Gelpi è attualmente impegnato nella direzione artistica de La Mia Seconda Volta, un drammatico young adult la cui uscita è prevista nel 2019. Prodotta dalla frusinate Vargo Film, la pellicola è stata girata in loco, in Ciociaria, nell’arco di cinque settimane, tra l’Acropoli di Alatri, il bosco Faito a Ceccano e Villa Letizia a Patrica, mentre per gli interni sono stati scelti ambienti di Frosinone, come un locale commerciale vicino alla Villa Comunale e alcuni uffici inutilizzati nella sede municipale. Nico (Raniero Monaco di Lapio), un poliziotto dal temperamento piuttosto scontroso e irascibile, rientra dopo diversi anni nel suo paese natale per far visita alla madre Eleonora (Maria Grazia Cucinotta), colpita improvvisamente da una grave malattia. Nello stesso periodo avviene una misteriosa serie di crimini efferati nel bosco limitrofo che sembrano riaprire ferite quasi rimosse e alimentare una scia di sangue interrotta da qualche tempo. Eppure, le tracce indicano che gli omicidi non sono stati compiuti da un essere umano, ma da un bestia enorme. La polizia è convinta che Nico sia connesso ai delitti, e lui stesso comincia ad avere dubbi su di sé perché si sente “cambiato”. Dopo aver rovistato in casa di Eleonora in cerca di qualche spiegazione, Nico scopre una terribile verità su suo padre. Grazie all’aiuto del professore francese Moreau (Christopher Lambert), un vecchio conoscente di famiglia, e della vecchia fiamma Alba (Marianna Di Martino), giornalista locale, Nico cercherà di entrare in contatto con la sua vera natura.

Il soggetto è ispirato alla antiche credenze del lupo ciociaro, il “lupinare”, una figura leggendaria che ha un forte legame con il territorio, tramite la tradizione orale del racconto trasmesso dai nonni alle nuove generazioni. Lo sceneggiatore e scrittore Alessandro Riccardi ha affermato: “Il nostro intento è recuperare una forte tradizione della nostra terra e sfruttare le bellissime location che offre e abbiamo subito pensato ai licantropi. La Ciociaria è un set naturale per questo genere di film”. Ed è proprio questa la peculiarità principale della pellicola: sganciare la rappresentazione dell’uomo lupo dalle suggestioni squisitamente horror che ne hanno caratterizzato la “fisionomia” cinematografica sin dagli albori per ricollocarla, piuttosto, nella dimensione mitica e archetipica del folclore popolare. Un approccio, diremmo, antropologico ed etnografico costruito, in fase di screenplay, dalle numerose testimonianze raccolte tra la gente del posto, soprattutto anziani, convinti, senza tema di smentita, di avere conosciuto nella loro vita un licantropo, spesso un vicino di casa. A Riccardi e Gelpi interessa soprattutto la dimensione clinica e psichiatrica della licantropia, convogliata appunto nelle storie tramandate dagli avi, piuttosto che quella soprannaturale e maledetta. La Voce del Lupo deluderebbe, quindi, chi vi cercasse esclusivamente trasformazioni mostruose, aggressioni e svisceramenti splatter, adrenalinici salti sulla poltrona o tensione forsennata e insostenibile. Il regista sceglie consapevolmente di non perseguire il battutissimo sentiero dell’horror puro, sviluppando piuttosto le sfumature drammatiche e thriller, potenziando il senso di mistero e la componente della “scoperta di sé” e frullando il tutto con una robusta dose di “giallo all’italiana” (e questo, diciamolo, fa tanto vintage) legata alle indagini condotte dal commissario di polizia locale e dalla sua squadra. Se si esclude una scena di “mutazione”, peraltro molto efficace nel suo essere presentata attraverso una vecchia VHS – un voluto riferimento metacinematografico alle seminali pellicole di genere anni Settanta ed Ottanta? – l’orrore non è esplicito e non viene mai colto in flagrante, ma soltanto suggerito o evocato attraverso la rassegna dei suoi effetti, in particolare cadaveri trafitti dagli artigli della bestia. Addirittura, nella parte finale, viene a galla anche una sottotraccia ambientalista nella denuncia dell’inquinamento delle falde acquifere a causa dello smaltimento di cianuro e di mercurio e nel correlato smascheramento di una “piovra” fatta di corruzione, traffici loschi e connivenze tra criminalità, industria e forze dell’ordine. Ecco, una svolta insolita che forse mette troppa carne al fuoco e che, pur nella sua cogente attualità, finisce inevitabilmente per stemperare il tema conduttore della pellicola e disperderne la pregnanza simbolica e concettuale. Fil rouge che, come a più riprese dichiarato dal regista, altro non è che il τόπος narrativo dell’accettazione di sé, della lacerante scoperta del proprio lato oscuro e animalesco, della difficile conquista di un unicum psicologico ed “organico”, la sola strada possibile per armonizzare e “pacificare” la propria interiorità e, di conseguenza, instaurare relazioni fruttuose con gli altri. Insomma, una rilettura filmica in salsa ciociara dell’exemplum letterario stevensoniano.

Suggestiva e pittorica la fotografia di Roberto Lucarelli, capace di cogliere le sottili nuance naturalistiche e il portato lirico e “terribile”, nell’accezione romantica e gotica del termine, del bosco – che sia inondato dalla luce zenitale del sole o percorso dal baluginare argenteo della luna – dello stormire delle fronde al vento e del tappeto di foglie morte che cela macabri indizi, passando con disinvoltura da una colorazione satura e densa ad una patinatura bruna di verdi, blu e grigi. Il cast è un curioso mix tra nomi di grido – Maria Grazia Cucinotta e Christopher Lambert – affermati caratteristi ciociari – Fabrizio Vado – interpreti di formazione teatrale – Massimiliano Vado e Elisabetta De Vito – e giovani promesse impegnate tra moda e cinema – Raniero Monaco di Lapio e Marianna Di Martino. Il primo, nei panni del protagonista, buca indubbiamente lo schermo per prestanza fisica e avvenenza e delinea con sufficiente credibilità i tratti più oscuri e violenti del suo personaggio, mentre non sempre appare convincente nella “quotidianità” delle sue azioni e relazioni e nei passaggi in cui non deve calcare la mano sugli spigoli della personalità di Nico, mentre la catanese Di Martino sorprende per freschezza e coinvolgimento, fornendo una performance davvero eccellente. La sceneggiatura procede per accumulo e rivela progressivamente i misteri e i colpi di scena della vicenda, smarrendosi a tratti in qualche dialogo banale e superfluo e omettendo di approfondire alla radice il rapporto tra Nico ed i genitori, ciò che probabilmente avrebbe giovato alla densità emotiva della narrazione. Ma al netto di tutte queste considerazioni, è da apprezzare il coraggio di una produzione che rimpingua lo scarnissimo repertorio filmico nostrano sul lupo mannaro (Lycanthropus, 1961, di Paolo Heusch, ne è uno dei rarissimi esempi) con un approccio inedito e trasversale.

Estremamente singolare e accattivante la vicenda, anche produttiva, di You Die. Scarichi l’App e Poi Muori. Dopo Karma – L’Espiazione (2016), di cui hanno curato la regia e la sceneggiatura, il torinese Alessandro Antonaci (regista, sceneggiatore e produttore del cortometraggio Un Mostro Chiamato Ignoranza, 2014, oltre che ballerino e cantante) e il palermitano, ma torinese di adozione, Stefano Mandalà (co-regista del cortometraggio animato Nightmare Factory, 2013, digital effects curator per Il Mistero di Dante, 2014), con l’ausilio dell’attore torinese Daniel Lascar – che ha collaborato a regia, sceneggiatura e produzione – sfornano un altro horror che dalla città della Mole è arrivato addirittura allo Screamfest Horror Film Festival di Los Angeles, la rassegna cinematografica dedicata al cinema dell’orrore che, nella prestigiosa sede hollywoodiana del Chinese Theatre, seleziona ogni anno circa venti lungometraggi inediti tra candidati provenienti da tutto il mondo. La pellicola, proiettata il 14 ottobre scorso in anteprima mondiale, si è aggiudicata il premio per la miglior fotografia. Interamente girato a Torino, You Die ha coinvolto circa 30 persone tra i 20 e i 35 anni, tutti giovanissimi professionisti del settore, e ha richiesto un budget quantificato in 140.000 euro, nove mesi di scrittura, ventinove giorni di riprese e sette mesi di post-produzione. Con gli esigui fondi a disposizione, i tre giovani artisti hanno dovuto chiamare a raccolta ogni risorsa disponibile, facendo sfoggio di un notevole talento creativo e adattando ingegnosamente mezzi e circostanze alle esigenze narrative. I fondi sono stati raccolti principalmente grazie al contributo personale di Daniel Lascar e alla partecipazione economica e tecnica di Francesco Scrufari e Simone Offredo, entrambi CEO di Ulixe, software house atipica nata a Torino nel 2001 e oggi presente in tutto il mondo. Ulixe, tra i vari progetti, si occupa anche di sviluppare applicazioni – quella di photo editing del 2016 è stata premiata da Google come migliore applicazione dell’anno – e di progetti in realtà aumentata – a breve lancerà un social network basato proprio sull’augmented reality: non poteva quindi rimanere insensibile alla trama di You Die, per la cui realizzazione ha messo a disposizione i propri contatti oltreoceano (nel 2016 la Universal ha scelto la loro app Lumyer per promuovere il film horror Ouija – L’Origine del Male) e ha deciso di superare i limiti del suo core business mettendo a punto anche l’applicazione ufficiale del film. Si è venuta così a creare una sorta di produzione cooperativa alla quale si è aggiunta la campagna di crowdfunding su Starteed. Il resto lo ha fatto la piccola casa di produzione fondata di recente da Antonaci, Mandalà e Lascar, la Eryde Produzioni. Come già per Ulysses: A Dark Odyssey, Torino si è confermata location privilegiata per pellicole dal sapore gotico o comunque sospese tra fantascienza e horror, offrendo le zone più periferiche e degradate della città per gli esterni e, udite udite, la casa della nonna di un amico dei registi per buona parte delle scene in interno. I protagonisti hanno a che fare con un’applicazione maledetta che uccide entro 24 ore il proprietario del telefono sul quale è stata installata a meno che questi non la scarichi a sua volta ad un’altra persona, resettando il conto alla rovescia e guadagnando, così, altre 24 ore di vita. Una volta attivata, l’app apre sul cellulare un obiettivo fotografico apparentemente comune, ma che in realtà è una porta dimensionale che spalanca un universo infernale, riprendendo terrificanti creature che non daranno tregua al malcapitato di turno. Dopo le brevi esperienze di Eva e Milo in apertura, il film si concentra sulle vicende della studentessa Asia (Erica Landolfi), della sua amica e coinquilina Viola, del suo amico innamorato Leo, di suo fratello Filippo e della compagna di quest’ultimo, l’ambigua psicologa Claudia. È grazie ad un amico nerd di Federico che comincia ad aprirsi qualche spiraglio sulla terrificante origine e sulle agghiaccianti finalità dell’applicazione. L’abisso di terrore nel quale la giovane Asia precipita sfocia in un delirio paranoico dal quale sembra impossibile trovare una via d’uscita.

Non si tratta di una novità assoluta: nel 2016  la pellicola statunitense Bedevil – Non Installarla, diretta, sceneggiata e prodotta dai fratelli Abel e Burlee Vang, aveva trattato un soggetto simile, mentre il tema della persecuzione di giovanissime vittime da parte di un’entità soprannaturale rimanda al film statunitense It Follows (2014), scritto, diretto e prodotto da David Robert Mitchell, con la differenza che in questo caso la propagazione della maledizione avveniva attraverso un rapporto sessuale. Ed è proprio al lavoro di Mitchell che i tre registi si sono dichiaratamente ispirati, soprattutto per la ricostruzione delle minacciose figure che appaiono progressivamente dal fondo dell’inquadratura. Antonaci e soci mostrano chiaramente di conoscere ed amare lo sterminato filone dell’horror soprannaturale, sia quello giapponese con ampio ricorso al terrore diffuso tramite telefono cellulare (tra i tanti, Ringu, 1998 e Chakushin Ari, 2003, con tutto il sottobosco di sequel, remake, omaggi e chi più ne ha più ne metta), sia quello statunitense legato alle produzioni Blumhouse e alle interminabili saghe nate dalla mente di James Wan. Ma la loro creatura non si limita ad un’imitazione pedissequa dei più gettonati – e, soprattutto, più ricchi – modelli internazionali: sfrutta il plot per disseminare la pellicola di riferimenti al dark web e alle infinite potenzialità, spesso nocive, dell’era del virtuale e del digitale; pennella un piccolo microcosmo di ragazzi inquieti e alle prese con l’elaborazione di un lutto, di un trauma o con le responsabilità derivanti della maturità ormai alle porte; frulla insieme paranoia e angoscia, stress da studio universitario e piccole gelosie tra parenti acquisiti, sospensioni sentimentali e desiderio di evasione. La costruzione della paura è affidata principalmente ai campi lunghi e ai movimenti dell’obiettivo “posseduto” più che all’effettiva messinscena dell’orrore, si nutre dell’attesa snervante dell’apparizione fantasmatica, si annida negli angoli bui dell’appartamento e nelle fugaci ombre che li popolano. Una manciata di jump-scare è assicurata, ma non è quello l’obiettivo dichiarato dei tre registi che preferiscono, piuttosto, puntare sulla narrazione e sulla caratterizzazione del personaggio di Asia. Naturalmente, la recitazione dei giovani protagonisti non è il massimo e non manca qualche dialogo piuttosto insulso e qualche buco di sceneggiatura, ma sarebbe criminoso puntare il dito su questi difetti di forma che non intaccano l’assoluta qualità sostanziale di un prodotto che fa soltanto onore all’Italia, per creatività, spirito d’iniziativa e sinergia tra tante piccole realtà del nostro panorama cinematografico.

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