TWIN PEAKS – Il risveglio della coscienza addormentata

Twin Peaks 3 si configura come un estremo, commovente atto di rivolta nei confronti del tempo, un tentativo di resuscitare chi non c’è più, infondendogli una nuova aura digitale…

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Ottavo episodio di Twin Peaks 3: risalendo il corso del tempo. Nell’atomica si rintracciano le radici di una mitologia riguardante non solo l’universo di Laura Palmer ma l’intera filmografia di David Lynch. Una sorta di punto zero, di voragine genesiaca dove scorgere già tutti gli incubi, le visioni, gli angeli e i demoni del regista del Missoula. Fate buone e streghe cattive, diavoli ed emanazioni celesti, del resto, hanno sempre costituito il centro antigravitazionale del cinema lynchiano. Eppure, mai come nella terza stagione di Twin Peaks, rimane l’impressione di assistere a un familiare sconosciuto, a un vicino lontano, a qualcosa che non si può dire se non sottoforma di ossimoro: è l’idea stessa del perturbante che ci assale e ci tormenta perché, noncurante, scolpisce e tradisce la nostra memoria. Lontani anni luce dalle logiche del revival, del sequel o del prequel – ma con Lynch non poteva essere altrimenti – Twin Peaks 3 è un oggetto misterioso, imprevedibile, un UFO dove cogliere una fiamma, una scintilla, un elisir: un passaggio a un altro mondo filtrato attraverso i messaggi di un futuro passato.

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21Che siano le pagine strappate del diario di Laura Palmer o i sinistri rumori del Great Nothern Hotel, il tempo ha infestato perfino Twin Peaks, imprimendo il proprio solco sui volti dei nostri beniamini. Sono passati venticinque anni e, in fondo, bisogna ripartire proprio da qui. Non da venticinque anni fa, ma da questo tempo eliso, sospeso, mai rappresentato: il tempo dell’oblio, il buco nero della Loggia, l’abisso che separa l’icona dal mondo, l’istante in cui la pittura metafisica incontra la decomposizione baconiana e si fa colore puro, cesura, fantasma (i fantasmi sono di casa in questa nuova serie: agiscono come sovrimpressioni, spiriti in dissolvenza, macchie di luce in movimento degne della migliore avanguardia surrealista). Lynch rifugge l’effetto nostalgia intuendo che Twin Peaks, oggi, deve ricominciare da questo presente assente, da questo sentimento del vuoto, per poter attuare un’autentica palingenesi televisiva (forse in maniera perfino più radicale di venticinque anni fa). L’obiettivo è quello di risvegliare lo sguardo dello spettatore, di fare della televisione il vaso di Pandora del virtuale, in maniera non così dissimile da quella Glass box che registra gli incubi di un mondo segreto, inconscio e pulsionale: il mondo dell’intera filmografia di David Lynch (da dove vengono tutti i personaggi del suo cinema se non dalle due logge?).

3Inoltre Twin Peaks 3 si configura anche come un estremo, commovente atto di rivolta nei confronti del tempo, un tentativo di resuscitare chi non c’è più, infondendogli una nuova aura digitale. Lynch crea degli avatar che si fanno beffe della morte (è il caso di Bob – Frank Silva, ma anche del Maggiore Briggs – Don S. Davis). Quest’assenza, questa mancanza, si conferma il centro propulsore della nuova serie: lo statuto ontologico del passato vacilla, si fa incerto, confuso, entra in una dimensione in cui è lecito ripetere la nenia di sempre:

“Is It Future or Is It Past?”

Il mondo di Twin Peaks come lo conoscevamo negli anni ’90 diviene il mito originario da ricostruire, il sogno da riconquistare pezzo dopo pezzo, assaporandolo lentamente, come si faceva con la torta di ciliegie di Norma. Quella cittadina tutta cinematografica, che sembrava uscita da un tardivo mélo americano, è il miraggio di un presente sempre più liquido e dislocato. Se prima esisteva solo Twin Peaks, la terza stagione la pone ai margini: la città continua ad esserci in una zona liminale, periferica. Non è più il centro dello sguardo, non è più il nucleo dell’azione. Il vero conflitto di questa nuova serie, almeno fino a qui, è come tornare all’età dell’innocenza – la Twin Peaks di una volta – trovando in Laura Palmer la regina celeste di un candore perduto: un angelo, come conferma la sfera dorata dell’ottavo episodio che sembra uscita, ancora una volta, dal Mago di Oz. Twin Peaks 3, ponte ideale per muoversi attraverso l’intera cinegeografia di Lynch, si fa breccia nell’oscurità per scorgere la luce in fondo al tunnel, per ricordare quel Paradiso Perduto e poi riconquistato che è sempre l’immagine fondativa del suo cinema.

4Non a caso questo grande film da diciotto ore si intitola The Return. Cosa altro è il ritorno se non un lento, inesorabile risveglio della coscienza addormentata? Ritornare significa, prima di tutto, ricordare. Sembra quasi di assistere a un graduale processo di anamnesi, a un faticoso, incessante lavorio di rammemorazione che procede per segni ed apparizioni. Il personaggio di Dougie Jones è il manifesto di questa idea: il corpo è la scatola, la mente è anestetizzata, vittima di una lunga trance che lo trasforma in quello che si potrebbe definire un perfetto ebete. Cooper, l’io assopito che abita in Dougie, non deve morire, ma deve tornare, ricordare l’uomo che era, riscoprire la propria identità, rinvenire se stesso (come in Mulholland Drive, come in Strade Perdute). Del resto la perdita di coscienza, l’oblio, il coma, è lo stato patologico proprio di molti personaggi di Twin Peaks fin dalla prima stagione: da Ronette Pulaski a Leo Johnson ridotto a un vegetale, da Benjamin Horne convinto di essere un generale della guerra di secessione americana a Leland Palmer che dimentica, o preferisce ignorare, quel Bob che vive in lui. Dougie non sa di essere Cooper eppure abbiamo l’impressione che l’agente sia sempre in procinto di ridestarsi, che per un istante, forse anche solo uno, è tornato. Lynch architetta questo viaggio mnemonico accumulando i segni ipercodificati della serie, intelaiando un percorso di stimoli volti al risveglio dell’eroe addormentato: l’odore del caffè, il pollice alzato, le ciambelle, per non parlare di quella straordinaria prova di riflessi con cui si difende dal serial killer nano. Noi spettatori, intanto, cerchiamo Cooper in ogni esitazione di Dougie, perfino nella lacrima che gli riga il volto alla vista del figlio in macchina. Ci aspettiamo quasi di incontrare Cooper in uno specchio, in sogno, in un momento d’improvvisa, esaltante reviviscenza. D’altronde solo ciò che è rammemorato può tornare in vita: ogni individuo è doppio, capace di proiettare un riflesso che non gli appartiene pienamente. C’è qualcosa che non coincide, una discrepanza, una asimmetria, un di più…un doppelganger.

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