Un figlio all’improvviso, di Vincent Lobelle e Sébastien Thiéry

L’assurdo come via d’uscita a un quotidiano piatto, fatto di corridoio illuminati, negozi d’arredamento e letti in esibizione. Commedia alla francese che non sconvolge ma risveglia

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E all’improvviso, l’assurdo. Una situazione improbabile, un dialogo senza senso, una quotidianità che diventa un posto incomprensibile e alieno. Il cinema, nella sua condizione di spazio libero ma canonizzato, ha la facoltà di prendere un pezzo di realtà e ingrandirla fino a renderla fin troppo evidente – e invadente – facendo anche notare su larga scala quanto possiamo essere assurdi, mentre crediamo di muoverci dentro una certa  “normalità”. Forse l’immagine che diventa esagerata e demenziale è il modo più giusto di combattere il tedio, quella calma che deve essere sconvolta, distrutta, per continuare a respirare. Il rovescio di un quotidiano troppo piatto, anche se si svolge in 3D, una dimensione persa nel tedio e nel perfetto movimento coreografico dei suoi elementi, perciò quasi inerte, dove il nonsense diventa l’unica maniera per renderlo vivo.

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Precisamente in quello spazio sospeso in mezzo, in quella frizione tra palese normalità e assurdo esagerato, è dove trova il suo fulcro la commedia francese Un figlio all’improvviso di Vincent Lobelle e Sébastien Thiéry. Tratta dall’omonima pièce teatrale di Thiéry (che recita anche nel film), la storia si svolge nella dialettica tra una vita tranquilla e sconvolta, tra la calma e la sorpresa, nella ricerca dell’ultimo goccio di entusiasmo e di vita che possa ancora esserci.

Il signore e la signora Prioux, André (Christian Clavier) e Laurence (Catherine Frot), vivono la loro vita borghese in apparente calma, muovendosi sempre insieme negli spazi pubblici, tra supermercato e le solite spese, i negozi di arredamento e mobili, dove conoscono ogni corridoio, ogni angolo, ogni pezzo di finta familiarità. Un giorno all’improvviso, nel corridoio delle verdure, compare un elemento strano: Patrick (Sébastien Thiéry), un ragazzo sordomuto che si avvicina convinto di essere loro figlio, che li chiama maman et papa e vuole aggiungere una scatola di cereali Chocapic al loro carrello. Patrick conosce i movimenti quotidiani della coppia, sa dove abitano, vuole portare la sua fidanzata cieca (Pascale Arbillot) a cena. La presenza di Patrick non sconvolge soltanto il presente della coppia ma anche il loro passato, lasciando André e Laurence perplessi per poi squilibrare pure la loro salute mentale: ma abbiamo avuto un figlio, senza renderci conto? O peggio ancora, l’abbiamo dimenticato?

Muovendosi con libertà e sotto le proprie regole, approfittando degli elementi grotteschi e

cambiando direzione sempre all’improvviso, il film diventa un tessuto organico e indefinibile fatto di sequenze demenziali, commedia slapstick e teatro dell’assurdo per poi rendersi un dramma con momenti di brutalità straziante, che si dissolvono velocemente nella leggerezza e nella perplessità. Mentre i personaggi avanzano in direzione della follia assoluta, l’ambiente si rende ogni volta più fermo, di carta, estatico; sempre circondati da posti pubblici e inerti, corridoi dove tutti vanno avanti senza rendersi conto dell’altro, letti e divani in esibizione sospesi in una finta situazione di conforto, che rappresentano la perfezione del non-uso per poi rendere evidente la loro condizione, quella di essere un oggetto di scena, l’illusione di una certa comodità.

L’impossibilità di comunicare è uno degli argomenti centrali del film – un ragazzo sordomuto che arriva con la sua fidanzata cieca, a parlare con un padre che non lo riconosce né capisce quello che dice, per poi confrontarsi con una madre che si rifiuta a sentire la verità e fare i conti con la realtà – ma subito diventa l’uscita più scontata, una lettura palese di un qualcosa che va oltre. Nella sua propria continuità e consistenza, Un figlio all’improvviso ritrae la mancanza di connessione con quello che c’è intorno, come un’uomo può diventare isola e costruirsi una versione tutta sua della realtà, fatta di corridoi illuminati e arredamento in esibizione. È sull’assurdo di provare ad ascoltare ciò che non vogliamo sentire e anche sulla freschezza che porta la follia, l’incoscienza come sinonimo di vita, la pazzia di un cinema che anche se non sconvolge, si ferma né riflette troppo su se stesso, almeno è in grado di scuotere il flusso delle cose, di rompere il percorso e attirare l’attenzione. Un tremore che muove e ci permette di stare più attenti, più svegli, anche se poi torniamo al nostro centro e forse dimentichiamo che sia mai successo.

 

 

Titolo originale: Momo
Regia: Vincent Lobelle e Sébastien Thiéry
Interpreti: Christian Clavier, Catherine Frot, Sébastien Thiéry, Pascale Abillot
Durata: 85′
Origine: Francia 2017
Distribuzione: Cinema

 

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