Un padre, una figlia. SentieriSelvaggi incontra CRISTIAN MUNGIU

Una chiacchierata esclusiva con il regista-simbolo della new wave rumena per il suo “Un padre, una figlia”, in sala dal 30 agosto dopo aver guadagnato il premio per la Miglior Regia a Cannes 2016

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a cura di Simone Emiliani e Sergio Sozzo

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“Tra me e Jean-Pierre e Luc Dardenne c’è un’affinità speciale, che non ha bisogno delle parole. Loro producono i miei film e dunque a Cannes abbiamo fatto decine di interviste insieme, ma senza mai incontrarci prima per metterci d’accordo su cosa dire ai giornalisti. Siamo la dimostrazione di come possano crearsi connessioni tra modi diversi di fare cinema e di essere autori anche se non si appartiene alla stessa provenienza geografica. Io non credo alle nazionalità nel cinema: mi sento molto più vicino ai Dardenne che agli autori rumeni della mia generazione.” Cristian Mungiu è una persona schietta e diretta, espone il suo pensiero con la calma e la precisione di chi ha veramente a cuore di instaurare uno scambio con il suo interlocutore.
Lo incontriamo in albergo, a Roma, dov’è venuto a promuovere l’uscita in sala del suo Bacalaureat, Miglior Regia a Cannes 2016. In Italia il film si chiama Un padre, una figlia, ed esce il 30 agosto. Questo è solo uno stralcio della chiacchierata integrale, in cui Mungiu ci ha parlato proprio del suo rapporto con la Croisette, e che potrete leggere sul prossimo numero di Sentieri Selvaggi Magazine.

Anche se difficilmente possono essere definiti film “di genere”, i tuoi racconti ci sembrano sempre avere una struttura nascosta quasi da thriller…

Mungiu: La tensione è un valore che amo particolarmente nel cinema, un modo per preservare questo espediente di raccontare di persone messe davanti a scelte estreme all’interno della vita di tutti i giorni. Non sono thriller nel senso formale del termine, basati cioè su montaggio isterico, sparatorie e musica incalzante, ma tentativi di riportare quelle sensazioni di una giornata comune in cui sperimentiamo comunque una miriade di momenti adrenalinici, con il cuore che batte all’impazzata. La sfida è proprio quella di costruire un film dal tono realistico mantenendo questo sentimento nascosto da thriller, senza che risulti evidente la contraddizione. Sin da 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni cerco di mettere in scena l’interiorità dei personaggi, nello sforzo di far sentire agli spettatori precisamente ciò che provano i miei protagonisti. Non è facile: hai bisogno davvero di una struttura da storia “di genere” per far sperimentare allo spettatore la crisi interna del personaggio.
Ad esempio, in Bacalaureat era importante far percepire come il protagonista si sentisse costantemente sorvegliato, braccato da qualcuno, assillato dal senso di colpa e dall’ansia. Questo livello mi serve per parlare del tema del compromesso, del ripudiare le scelte in cui credevi nella tua vita. Ma io faccio film: nella letteratura puoi dilungarti a parole su questi temi, con il cinema hai bisogno che le persone sentano, sperimentino le situazioni che la tua storia racconta attraverso le immagini.

Questo è evidente anche nelle scelte formali, questi pianosequenza quasi

un padre una figlia“indifferenti” squarciati da fratture interne, da interventi violenti del fuoricampo che sembrano intrusioni improvvise e martellanti dall’esterno. Pensiamo alle pietre lanciate contro i vetri in Bacalaureat, alle mille telefonate rifiutate che il protagonista riceve sul suo cellulare. Si tratta di una maniera per raccontare anche l’interferenza cocciuta e reiterata delle istituzioni nelle nostre libertà?

Mungiu: Certamente Oltre le colline e 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni sono due film sulle istituzioni, ma Bacalaureat pone la discussione anche ad un livello più esistenziale: non siamo isolati dalla società che ci circonda e nella quale viviamo, al contrario siamo continuamente condizionati da quello che la società fa e da come è strutturata. Le nostre decisioni sono reazioni a quello che ci succede intorno.
Non si tratta di simbolismo, odio i simbolismi, la gente mi chiede perché non si veda bene chi è che lancia le pietre, cosa regala Romeo al bambino nel finale, che fine fa un certo coltello ad un certo punto. Se guardate con attenzione, c’è una risposta per tutto, quello che manca è l’inserto del dettaglio che possa spiegarvelo con una scelta di montaggio. Ha a che vedere con la mia integrità da regista: io non amo tagliare i pianosequenza per rendere più efficace l’azione, neanche in casi come Oltre le colline dov’è stato difficilissimo mantenere il long take nelle sequenze più movimentate e concitate.
Richiedo un’attenzione particolare per portare lo spettatore ad avere a che fare direttamente con il mio messaggio, non voglio che la percezione della presenza di un regista, delle sue scelte di inquadratura o di commento musicale decidano per te cos’è importante nella scena, e cosa sia da tenere in secondo piano. Dobbiamo rispettare la complessità della vita: nella vita nessuno decide i tagli di montaggio per noi.

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