Un ragazzo d'oro, di Pupi Avati

L’effetto che provoca tutto l’ultimo cinema di Avati è quello di una costante (ri)flessione sul passato personale e del cinema italiano – qui letterlamente confinato in una oscura casa-museo – che fa sentire tutto il peso di un punto di vista rispettabilissimo ma a forte rischio deja vu. Con i pregi e i difetti, il regista rimane coerente al suo granitico percorso quarantennale: prendere o lasciare

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L’effetto straniante che provoca tutto l’ultimo cinema di Avati è quello di un ascensore nel tempo, come fossimo sempre trasportati di peso in epoche mitiche (quelle del Bar Margherita), persi nella memoria (di Una sconfinata giovinezza) o nei luoghi natii (Il cuore grande delle ragazze). La sua è una costante (ri)flessione sul passato personale e del cinema italiano, che fa sentire tutto il peso di un punto di vista rispettabilissimo ma anche a forte rischio deja vu. Ed eccoci a questo Un ragazzo d’oro: c’è un padre morto improvvisamente in un incidente stradale (suicidio?) che era uno sceneggiatore cinematografico in attività nei lontani anni '80, quelli del cinema di serie B e delle commedie scollacciate, i tempi in cui il cinema lo si scriveva/faceva per “rendere felici le persone”. Poi c’è suo figlio (Scamarcio) che in seguito all’orrendo rapporto col genitore si è trasferito a Milano, nella mecca della pubblicità, a lottare con la sua depressione e con i suoi disturbi ossessivo compulsivi. Ovviamente il “nostro film” è il suo ritorno a Roma, prima per il funerale e dopo per incarnare il doppio del padre e riscattarne la memoria.

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E allora: è proprio questo l’aspetto più interessante del film. La casa del vecchio Bias ri-abitata dal giovane figlio diventa un vero e proprio museo del cinema italiano che fu. Corridoi bui, porte cigolanti, uno studio inquadrato come un tempio in cui fa fatica a entrar luce e dove appena si distinguono le tantissime fotografie dei protagonisti dell’epoca (Vitali, Banfi, Fenech, ecc). Insomma una camera verde simile all’ultima casa verdoniana di Sotto una buona stella: ed è molto interessante come due autori così diversi ma così attivi in quegli anni vedano oggi il mondo (del cinema) da una camera oscura lontana dal presente che forse non li comprende più. Quest’atmosfera plumbea e fantasmatica disegna la “scenografia perfetta” (come dice apertamente Scamarcio a un’impaurita Capotondi) per rianimare l’ossessione delle vecchie case di Avati, quelle delle finestre che ridono e degli appartamenti.

Ora: al netto di questa bella intuizione visiva, rimane tutto il resto del film. Il classico rapporto padre/figlio (Il papà di Giovanna, Il figlio più piccolo, ecc) è declinato questa volta come ereditarietà della follia (o della creatività) che addirittura riavvicina i due dopo la morte. Il romanzo, l’opera da portare a termine, diventa sia il mezzo sia il fine delle loro vite purificandole da un destino di morte (il padre) e di pazzia (il figlio). E il ponte che li lega è incarnato, nientemeno, da una rediviva Sharon Stone: la diva anni ’90 qui interpreta una ex attrice (eccola la cosa più ironica del film…) ora diventata editrice di successo con tanto di attico a Via Margutta. E sorvolando sulle sonore vertigini provocate da un doppiaggio che “allontana” ancora di più la Stone dal contesto (una sorta di stranita aliena hollywoodiana in perenni vacanze romane) Avati si conferma comunque lo spericolato assemblatore di attori che è sempre stato.

Insomma: il punto di vista su quella stagione di cinema è da un lato bonario (piena di gente che “non è stata capita” e film dimenticati utili solo per tesi di laurea “che tanto non fa nessuno”); ma dall'altro lato è netto e intransigente (il regista Beppe Masiero è volgare e amato solo “dagli amici di Tarantino”). Come l'altrettanto tradizionale dicotomia Roma-Milano: il cinema rintanato in una casa-museo che trasuda passato, contrapposto alla ricca pubblicità messa in bella mostra nei luminosissimi uffici che sanno di asettico presente. Riccardo Scamarcio (che regge bene il suo ruolo di perenne alterazione mentale) ha decisamente ragione: la scenografia è sempre “perfetta” in questo film. Concede pochi spiragli: tutto è inquadrato, molto è detto e lo sguardo sul mondo e sulle relazioni diventa quanto di più avatianamente prevedibile. Questa è l’ennesima riprova di un autore asservito in toto al racconto preventivamente pensato, ma comunque sanamente innamorato del cinema e delle sue tradizioni. Ecco, con i suoi pregi e i suoi difetti, Pupi Avati rimane coerente al suo granitico percorso quarantennale: prendere o lasciare.

Regia: Pupi Avati
Interpreti: Riccardo Scamarcio, Sharon Stone, Cristiana Capotondi, Cristian Stelluti
Origine: Italia, 2014
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 102'

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