(unknown pleasures) Captives, di Atom Egoyan

Aspettando Venezia 72. Atom Egoyan è sempre sulla soglia, non fa cinema di genere da manuale, ma fa ipotesi di vita, inscena cellule impazzite, che vanno oltre la storia, un racconto lineare

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Una bambina di nove anni viene rapita, mentre attende in macchina il ritorno del padre, sceso a comprare una torta. È vittima di una setta segreta di pedofili che la tiene in vita per molti anni, sorte differente per altri bambini, rimasti uccisi dopo aver compiaciuto i desideri devianti. Da qui si dipana la storia scritta e diretta da Atom Egoyan, in cui si indagano i rapporti drammatici che si sviluppano tra le persone coinvolte. Salta agli occhi con maggiore evidenza Il dolce domani (1997), immersi nella neve dell’Ontario, con salti temporali non lineari che vanno a comporre il mosaico di un thriller psicologico atipico, più d’atmosfera che di sostanza. Proprio come piace al regista, al quattordicesimo lungometraggio, che cerca sempre un’immersione sensoriale del nostro sguardo, a cui si chiede di fare i conti nuovamente con il sentimento di colpa. Nella stanza in cui è segregata la bambina, che ritroveremo adolescente, c’è un monitor sempre acceso, in cui è possibile spiare la madre cameriera ai piani di un grande albergo, che ogni tanto ritrova oggetti familiari che la riconducono alla figlia, disseminati nelle stanze dagli stessi rapinatori. Dopo molti anni, le ricerche sembrano ormai non avere più sbocchi e il primo sospettato diventa il padre, ritenuto poco coerente nella sua ricostruzione del presunto rapimento. È vero, senza ovviamente voler andare in fondo alla trama, a molti non convincerà questa opera, come forse le ultime del regista, anche per evidenti debolezze di sceneggiatura e per un finale a dir poco frettoloso, ma non è possibile negare la coerenza etica insita nel suo cinema.

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the-captive(1)Come ne Il Flauto Magico, opera che il pedofilo ascolta e fa ascoltare alle sue vittime in ostaggio, secondo Montale, il capolavoro dell’illuminismo, siamo dinanzi sempre a rappresentazioni di un cammino iniziatico, il passaggio attraverso il fuoco e l’acqua (la bambina Cassandra potrebbe essere domani, un dolce domani, Chloe), della ragione in lotta contro l’oscurantismo e la superstizione. Atom Egoyan è sempre sulla soglia, non fa cinema di genere da manuale, ma fa ipotesi di vita, inscena cellule impazzite, che vanno oltre la storia, un racconto lineare. Così l’evento scatenante diviene infilmabile, come il rapimento della bambina dal sedile posteriore dell’auto, che la mdp non segue direttamente, ma “zooma” lentamente dall’esterno, verso i vetri del market, dove il papà è al bancone per ritirare la cena. Anche lo spazio che ci divide dalla comprensione dell’evento scatenante resta insondabile, ma qualcosa comunque invade i nostri occhi, un’immagine sfaldata, ritualizzata, persa, ritrovata, portando alla luce il ricordo, il gesto. L’auto del padre resterà da quel giorno inalterata, sempre con i pupazzetti appiccicati ai finestrini e la foto della figlia con il suo partner pattinatore. Manca di sostanza Egoyan, è vero, probabilmente di quella solidità superficiale pero’, lasciando spazio alla profondità del cinema, a scampoli illusori di realtà mai data compiutamente e sempre in viaggio (… di Felicia) su trame inquietanti, destabilizzanti. Sarà questo il motivo per cui i set di Egoyan sono carichi sempre di dispositivi visivi supplementari, a sancire il termine dell’orizzonte percettivo, per una visione allucinatoria che metta in discussione il senso del cinema e lasci spazio definitivamente alla deriva, nella stagione di false verità. Il senso di vuoto è riempito dalla speranza di un utlimo abbraccio, con brevissimi ritorni sul luogo dell’incidente (proprio come succede in Exotica, in cui si torna di frequente sul luogo dove si è composta l’immagine dell’ossessione), quale filtro sconnesso di una realtà che segna il passaggio da un strato all’altro dell’immagine della vita. E’ appunto un transitare, un oltrepassare il confine dell’istante che unisce The captive alla filmografia passata, su uno sguardo perduto e sulla sua sublimazione in artificio (o truc) nostalgico, sentimentale, malinconico. Dal cinema alla realtà, passando per un profluvio di frammenti che accarezzano l’intermittenza dell’occhio, disperdendo l’intensità e la solidità di fondo iniziale per un’emozione effimera e ritrovata, con i pattini sul ghiaccio, ancora una volta.

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