(unknown pleasures) Enemy, di Denis Villeneuve

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Liberatosi dai meravigliosi lacci di una sceneggiatura scritta nei minimi particolari, Denis Villeneuve approfitta dell’adattamento de L’uomo duplicato di José Saramago per affacciarsi sui bordi del Vuoto. Confezionando un'opera disperata e disperante, il regista sembra quasi divertirsi ad affogare nell’inferno dei non-detti ostentati e degli accenni a mondi osceni inenarrabili

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Adam è un triste e anonimo professore universitario. Le sue giornate si ripetono in un loop alienante, alternate fra trascinate lezioni di scienza politica, incontri sessuali fugaci e animaleschi con la sua bella compagna e la commiserazione verso se stesso e quello che è diventato. Sempre gli stessi gesti in giorni sempre uguali, in una città tetra e soffocante come una ragnatela, stanno uccidendo l’uomo, trasformandolo lentamente nell’uomo inetto e superficiale, ritratto dalle accuse e dagli insulti della severa madre. Solo per caso, per un’epifania, s’imbatte nella scoperta fortuita dell’esistenza di Anthony, mediocre attore di seconda fascia assurdamente e inquietantemente uguale a lui, lo getterà in un febbricitante stato di repulsione/attrazione, tensione talmente forte da fargli varcare l’ultimo passo oltre il confine delineato delle apparenze, concedendogli uno sguardo lucido finale sulla verità dietro le normalità di una patetica Esistenza.

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Liberatosi dai meravigliosi lacci di una sceneggiatura scritta nei minimi particolari, l’ottimo lavoro di Aaron Guzikowski per Prisoners, Denis Villeneuve approfitta dell’adattamento de L’uomo duplicato di José Saramago per entrare nei territori del Turbamento, per affacciarsi sui bordi del Vuoto accanto a molti maestri. Guardando evidentemente alla distruzione identitaria del teatro pirandelliano e alle opere più antiborghesi e disturbanti di Cronenberg, Polanski e Lynch (il cammeo di una splendida Isabella Rossellini nei panni della madre è l’evidente richiamo consapevole a un rapporto filiale/discepolare con il regista di Velluto Blu) il regista canadese confeziona un film disperato e disperante. Villeneuve, infatti, si conferma capace, con sadica intelligenza, di guidare lo spettatore verso le vie di molte domande ma privandoli allo stesso tempo del traguardo di una qualche risposta, anche sussurrata. A differenza della solida struttura a orologeria della sua pellicola "hollywoodiana” con Hugh Jackman, dove l’omaggio alla classicità del thriller d’atmosfera (uno sguardo a Eastwood, uno a Fincher) obbligava che ogni tassello dovesse andare al proprio posto evidente, qui Villeneuve sembra quasi divertirsi ad affogare nell’inferno dei non-detti ostentati e degli accenni a mondi osceni, portando con sé il proprio pubblico e, soprattutto, il proprio protagonista.

E’ grazie a Jake Gyllenhaal che questo viaggio senza ritorno ha molte delle sue conseguenze. La sua caratterizzazione, coerente e spiazzante, nel doppio ruolo di Adam/Anthony permette di ritrovarci davanti agli occhi due personaggi distanti e complementari, diversi e identici come i riflessi di uno stesso specchio. Appesantito, sfatto e stanco, con la barba della depressione intellettuale, l’attore diventa due volte uomo e trasmette nel suo eroe e nel suo doppelganger (Chi è chi? Chi è cosa?) la frustrazione malata di un’intera società portata alla schizofrenia, dove piuttosto che a scendere a compromessi con le proprie possibilità (e i propri fallimenti) si preferisce cullarsi nelle illusioni di continue maschere e di continue identità, nell’infinito gioco di specchi dell’apparenza da social network o della fama di approvazione generale, arrivando fino al proprio annullamento, dimenticandoci per sempre chi siamo, se Adam o Anthony.

 

Titolo originale: id.

Regia: Denis Villeneuve

Interpreti: Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Sarah Gadon, Isabella Rossellini

Durata: 90'

Origine: Canada/Spagna 2013

 

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