(unknown pleasures) How to disappear completely, di Raya Martin

Ciò che ribolle sottotraccia è sempre l’impossibilità di tacere del passato, che affiora comunque in gesti, parole e pensieri, fantasmi coloniali che da sempre affliggono il cinema di Raya Martin

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Si sa che il filmare di Raya Martin è un continuo mutare pelle, uno scrollarsi di dosso l’ennesima carcassa epidermica, ma anche critica, stilistica, interpretativa. Una pelle che si fa sempre più sottile a ogni muta, per forza di cose più leggera rispetto all’enorme peso delle opere precedenti, ognuna quasi un’opera prima di folle irriverenza giovanile, ciascuna un’occasione per fare di nuovo tabula rasa e ricostruire con le macerie, sulle macerie. Ma il peso può e deve manifestarsi attraverso onde e increspature sotto un telo apparentemente liscio al tatto, ed ecco che How to disappear completely – da subito considerato il lavoro più dissonante, quasi normativo, nella filmografia del cineasta filippino – è invece un costante porsi fuori dal margine e dall’immagine, una bolla sottocutanea pronta ad esplodere.

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How to disappear completely, di Raya MartinAncora una storia di formazione, le pulsazioni sconnesse di un’adolescenza schiacciata dalla violenza silenziosa del mondo adulto; ancora gli occhi di Ness Roque (già vista bambina in Now Showing e Independencia) a filtrare le visioni di Raya, che anche qua, nonostante le premesse, si scollano sempre di più dalla realtà per entrare in una dimensione trasognata, soffocata dalla vegetazione e immersa nel buio. Abituato da sempre a filmare storie di fantasmi, nel confronto con un soggetto puramente horror il cinema di Raya si fa più che mai fisico, non tanto attraverso i corpi quanto il modo inedito in cui usa il sonoro, mai così importante come in questo caso: anche il canto dei grilli può divenire un’assordante trenodia che copre le parole e trova un controcanto solo nell’oscurità della notte filippina, mentre la fantastica colonna sonora di Eyedress, un’elettronica grassa, pesante e in continua vibrazione, si amalgama con una fotografia livida, spesso fuori fuoco e sembra presagire quella scomparsa auspicata nel titolo ma inarrivabile. Durante la visione sembra quasi che occhi e orecchie siano gonfi di fumo, come la nebbia densa e collosa di Apichatpong (si veda in proposito il suo ultimo corto), la cui influenza torna stravolta nella devastante scena finale.

How to disappear completely, di Raya MartinL’orrore non è tanto radicato nel folklore, la presenza di un aswang che accompagna la protagonista per tutto il film, quanto nel senso d’attesa, nelle pause che fanno sussultare l’andamento in apparenza lineare, ma che si fa sempre più monco, eviscerato – c’è un certo parallelismo tra la mano della madre immersa nel caldo ammasso di viscere animali e quella della figlia che scompare tra le gambe durante un atto d’autoerotismo asfittico; ma anche la dimensione sessuale sembra astrarsi mentre il corpo del film rimane senza organi. In ultimo, l’apparente rivalsa finale, una rivolta conquistata con il fuoco e il sangue, per nulla conciliatoria nel suo essere afasica viene poi del tutto ricondotta a terra, anzi seppellita in profondità, dalla violenza dell’ultima scena. Un’ulteriore sterzata registica che materializza l’orrore silenzioso che finora espirava solo a tratti, ancor più orribile e insostenibile perché privato di ogni patina onirica e per questo fin troppo chiaro e leggibile agli occhi.

Ciò che ribolle sottotraccia è sempre l’impossibilità di tacere del passato, che affiora comunque in gesti, parole e pensieri, fantasmi coloniali che da sempre affliggono il cinema di Raya Martin, e per certi versi anche ridicolizzati in una scena del film, anche se la parodia è forse rivolta a certi cliché della critica che hanno inchiodato il regista in uno schema interpretativo fin troppo piatto, ancora considerato come un enfant terrible del nuovo cinema filippino, lettura coadiuvata dallo sguardo radicato in occhi di bambini e adolescenti, velati di falsa ingenuità. Ma ancora una volta, sono gli occhi dei bambini i più crudeli, in grado di vedere oltre la costruzione cinematografica e riconoscere quali sono le mani più insanguinate, quelle che sempre riemergeranno dalla terra, sempre più sporche.

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