Valdarno Cinema Fedic – Masterclass con Marco Bellocchio

Ospite al Valdarno Cinema Fedic, il regista Marco Bellocchio ha condiviso gli elementi essenziali di una delle poetiche più uniche e visionarie del nostro cinema. Premio Marzocco alla Carriera 2017

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Avevo paura del mio essere folle e guardavo con una certa curiosità la pazzia coccolata dalla sinistra”. Ospite del Valdarno Cinema Fedic, il regista Marco Bellocchio ha tenuto una lunga Masterclass in cui, oltre a ripercorrere una carriera ricca e duratura, iniziata nel 1965 con I pugni in tasca, è stato insignito del maggiore riconoscimento del festival: il premio Marzocco, simbolo della città di San Giovanni Valdarno. A seguito di una vera e propria lectio magristralis, il pubblico ha avuto la fortuna di rivedere sul grande schermo uno dei capisaldi della filmografia bellocchiana: La Cina è vicina, a celebrazione dei cinquant’anni dall’uscita.

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Da ventun’anni il cineasta ha reso la cittadina di Bobbio, in provincia di Piacenza, una meta prediletta per i giovani appassionati della settima arte. Due settimane di festival – l’ultima di luglio e la prima di agosto – in cui qualche anno fa alcuni dei partecipanti di Fare Cinema hanno contribuito alla lavorazione di due prodotti bellocchiani: Sorelle e Sorelle Mai. “È stata una proposta dell’Assessorato. Avevo un po’ lasciato Bobbio dopo Vacanze in Valtrebbia, dunque si è trattata di un’occasione per rigenerare il mio rapporto con la città. Non è il mio luogo di nascita, ma ci trascorrevo due, tre mesi d’estate ed è lì che ho avuto le prime esperienze formative, comprese quelle sentimentali. Quando decisi di girare I Pugni in tasca ero privo di mezzi, anche economici, e in Bobbio trovai la soluzione ideale. La consuetudine e la conoscenza del posto sono state utili al film”.

L’ultima pellicola, Fai bei sogni, è stata presentata lo scorso anno alla Quinzaine del Festival di Cannes: una trasposizione cinematografica dell’autobiografia del giornalista Massimo Gramellini, con protagonisti Valerio Mastrandrea e Bérénice Bejo. È risaputo, in particolare fra gli addetti ai lavori, che la stampa italiana non ha sempre mostrato occhi di riguardo per la sua poetica. “La critica più istituzionale spesso non mi

18222073_1687680927939032_3117112592819691237_n ha capito, però avendo vissuto molto, mi è successo di aver ottenuto ammirazione solo dopo, attraverso il recupero. La reazione suscitata sia da Diavolo in corpo che da Vincere fu fredda, almeno nella stampa nostrana. Con Il principe di Homburg molti furono felici della mia liberazione da Massimo Fagioli (psicoanalista da poco scomparso), sebbene io abbia continuato l’analisi collettiva anche dopo. Devo ammettere che ho sempre diffidato di quelli che ti vengono incontro autoproclamandosi figure paterne”.

Il cinema di Marco Bellocchio, forse più di qualsiasi altro, è riconoscibile per una serie di tratti unici, sempre presenti e reiterati con la maestria non solo dell’artigiano ma dell’artista che nella sua corsa verso la propria visionarietà centra e intrappola l’ossessione. A lui la parola: “I Pugni in tasca è un film del tutto irrealistico. Qualcuno lo definì “la tomba del neorealismo”. Esistono delle ingenuità, ad esempio l’urlo della madre in stile Mario Bava. Però nell’Italia del ’65 uccidere la propria madre aveva un qualcosa di per sé incisivo. Quando venne presentato al Festival di Locarno, davanti ad un pubblico perlopiù di critici, mi sorprese che ridessero. Non si aspettavano quel tipo di visione. Lì c’era la libertà dell’incoscienza; nessuno dei condizionamenti e delle difese con cui lotti a partire dal secondo film. Ci fu una piccola autocensura prima dell’uscita, per non incappare nel ritiro: una scena in cui Castel e la sorella si abbracciavano e cadevano sul pavimento esplicitando l’incesto. Per fortuna molti anni dopo trovammo quel frammento di pellicola nel trailer e lo riaggiungemmo”.

Nei film di regola si rispetta il finale della sceneggiatura, però per due dei miei c’era una certa esitazione. Rispetto a I Pugni in tasca, ero incerto sul brano de La Traviata. Lou Castel non aveva cultura operistica, ma fortunatamente il collettivo nel cinema ti condiziona anche positivamente. In Buongiorno, notte invece, la passeggiata di Aldo Moro è improvvisata. Mi chiesi se ci si potesse concedere tale libertà. Fu davvero un’azione dell’ultimo momento, eppure, in fase di montaggio, fu riaffermata la realtà storica: Paolo VI che quasi rimprovera Dio per non aver udito la sua supplica. L’epilogo di Fai bei sogni ci sembrava struggente ma non sentimentalistico; ce n’era traccia nel romanzo ma in un punto diverso”.

Mi piace mescolare i linguaggi in un’architettura arbitraria. Tutto è iniziato con Buongiorno Notte, dove la totalità è vista da dentro, ma proiettata all’infuori. Oppure la televisione che inizia ad invadere gli spazi domestici. Ricorrere alle immagini di archivio è stato spesso un trucco per aggirare i costi della ricostruzione storica. Stesso discorso per Vincere, ma Mussolini utilizzava il cinema per imporre la sua immagine, dunque mi sembrava necessario rendere proprio quel repertorio il filo conduttore”.

Al Centro Sperimentale iniziai come interprete, ma ebbi un problema alla voce. Essendo in origine un pittore, lì mi appassionai al cinema muto e questo mi ha sempre spinto alla rimozione della parola; quando posso ridurne il numero lo faccio. Si tratta di 18221633_1688761657830959_1312248585106333626_nun’inclinazione naturale. È nell’immagine pura che mi ritrovo, per quanto sia un lettore appassionato. C’è da dire però che esistono voci addirittura più potenti dell’immagine”.

Il sorriso – presente nei finali de Gli occhi, la bocca, L’ora di religione e Buongiorno Notte – lo devo ancora una volta al cinema muto. Penso a Metropolis, a Nosferatu, forse il film che più di tutti mi colpì nella formazione. Non voglio fare polemica, ma spesso in molti prodotti l’immagine non esiste, è secondaria; c’è un chiacchiericcio perenne. Oppure troviamo un abuso di inquadrature agl’occhi, come in tv. Quando una delle mie attrici si sforza di piangere, io le dico semplicemente di lasciar perdere”.

La prigionia e la liberazione si legano al concetto di sicurezza, a quella che puoi trovare nell’ambiente di reclusione. Il mio rapporto con Fagioli fu progressivo; in Diavolo in corpo capì che c’era qualcosa a cui tendevo, ma che non riuscivo a far trasparire, e lui mi aiutò. Tuttavia, essendo Fagioli un eretico della psicoanalisi canonica (Freud, Basaglia) una certa cultura dominante di sinistra mi massacrò. Quando fui denunciato di plagio mi feci da parte e se il film uscì, lo devo ai coproduttori francesi: furono loro a salvarlo“.

L’dea della rimozione del corpo non nasce da un calcolo. I miei film nascono sempre da un’immagine primaria. Nel caso di Bella Addormentata tutto partì da un affetto sincero e dalla grande ammirazione nei confronti di Peppino Englaro. Non mi reputo granché coraggioso ed è per questo che gli uomini che lo sono mi affascinano. Volevo dare spazio all’educazione cattolica ma pure a quella progressista. Inoltre, mi ha sempre interessato tradire la storia, anche se parzialmente”.

 

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    Un commento

    • “Devo ammettere che ho sempre diffidato di quelli che ti vengono incontro autoproclamandosi figure paterne”. Ma davvero Bellocchio avrebbe detto questo? Davvero strano.