VENEZIA 60 – Nel fango della laguna: "Camur", di Dervis Zaim (Controcorrente)

Camur, che vuol dire fango, gioca e riflette con una carica metaforica a dir poco ridondante sugli orrori, i malumori, le ossessioni e le follie generate dalla guerra tra Grecia e Turchia che, nel 1974, generò la spartizione in due dell'isola. Un film fatto di materia, di liquami, di una fisicità assoluta, scisso (indeciso) tra commedia e tragedia

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Inizia nella fanghiglia cipriota la 60a edizione della Mostra del Cinema, una produzione turco-cipriota dell'ex direttore di Locarno Marco Muller. E' una Mostra che apre in sordina, pronta ad esplodere i suoi pezzi forti più avanti, non appena il famigerato Lido si sarà riempito di pubblico, stampa, e "accompagnatori" vari. L'aria, nonostante i recenti temporali è sempre la solita qui al Lido, roba da Bogart e la Hepburn de La regina d'Africa, e il posto appare appiccioso e inospitale come sempre. Prima sorpresa per gli accreditati culturali che, arrivati ieri, hanno trovato chiuso l'ufficio a loro riservato per le tessere di accesso in sala. Ma anche la stampa ha faticato un po' per avere quel tesserino che, con la "modica" spesa di 40 euro, permette l'accesso in sala (domandina per De Hadeln: cosa giustifica l'aumento della tessera stampa da 26 a 40 euro? Il catalogo è sempre a pagamento e la sala stampa ha sempre una quarantina di computer, contro circa 3000 giornalisti accreditati… ). Ma al malfunzionamento della Mostra siamo ormai tutti abituati, e non c'e' esperto di Festival (Laudadio, Barbera o De Hadeln) che riesca a spezzare questa catena di incompetenza diffusa, ma forse la verità la conoscono tutti, ed è che il Lido è il posto meno adatto al Cinema, e che la proverbiale efficienza del Nordest qui si è smarrita nella laguna… Alla fine però siamo sempre tutti qui, a lamentarci ogni anno, assolutamente incapaci di interrompere il carrozzone della Mostra. Forse ci vorrebbe un altro '68, magari meno ideologico e più pragmatico. E anche una stampa meno asservita, non tanto a un astratto potere quanto a delle logiche consolidate dalle quali nessuno sembra voler più uscire. E tutti dietro allora a correre per accaparrarsi spazi, visibilità, notorietà, e la Mostra diviene infine questo contenitore folle e insensato, dove esserci o non esserci è del tutto irrilevante, ma dove sembrare e apparire è davvero l'unica cosa davvero "necessaria".

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Luogo delle forme, delle apparenze appunto, luogo astratto eppure concreto, come le zanzare che allietano le notti insonni, come astratto e mellifluo è il territorio di confine (non lo e' stata per secoli anche Venezia un po' terra di confine tra occidente e oriente?) protagonista del film turcocipriota Camur, diretto da Dervis Zaimk. Camur, che vuol dire fango, gioca  e riflette con una carica metaforica a dir poco ridondante, sugli orrori e i malumori, le ossessioni e le follie generate dalla guerra tra Grecia e Turchia che, nell'ormai lontano 1974, generò la spartizione in due dell'isola, unico "muro" ancora esistente in Europa, anche se continuamente rimosso dalla Comunità internazionale. Cosa avverrà se e quando la Turchia entrerà a far parte della Comunità Europea? Che cos'è ancora quel confine nel mondo attuale? Il film di Zaim non riflette tanto sul futuro politico dell'isola (per fortuna) quanto su quello "privato", quasi generazionale, di un gruppo di amici alle prese, in vari modi, con questo passato e con questo confine ingombrante. Da Ali', non più giovane soldato di leva, alle prese con problemi alla gola che gli impediscono di parlare e di stare al sole, o il suo amico intellettuale che vuole raccontare al mondo il passato della guerra, non riuscendo a liberarsi dell'orrore degli omicidi compiuti da ragazzo per vendicarsi dei greci, o della sorella di Ali, presa tra contaminazioni culturali e seminali. E' un film fatto di materia, di liquami, di una fisicità assoluta questo Camur, dove il fango "salutare" ricopre i corpi dei malati, con Ali che ne diviene una vittima ossessiva, ma dove questo si interseca con liquidi seminali, sangue e acqua. Ma è anche un film, ossessivamente, di statue, che percorrono tutta la storia uscendo e rientrando dalla terra e dalle profondità marine, come un rimosso di una fissità culturale che impedisce di andare oltre, di bypassare le assurdità di un conflitto ormai passato, e che invece ogni volta sembra ricondurre i personaggi al luogo di partenza. Zaim cerca la chiave della commedia umoristica, ma il tono "tragico" dei suoi ripetuti afflati metaforici (appunto il fango, i corpi feriti, gli aborti, le statue) sembra ricacciare il film dentro un non luogo della narrazione, dove il cuore e il cervello vanno in direzioni separate. Film scisso, che tenta nel finale di dare un tocco di ottimismo-speranza, sulla rinascita e su un futuro possibile, anche se il prezzo da pagare sembra sempre essere quello della sparizione dell'uomo… Per Zaim questo è il terzo lungometraggio dopo Capriole in bara del '97 e Elefanti ed erbe del 2000. Nei credit segnaliamo con piacere la presenza della montatrice Francesca Calvelli, collaboratrice abituale (e compagna) di Bellocchio nonché nostra prossima ospite della Scuola di cinema di Sentieri selvaggi.

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