VENEZIA 61 Il sentimento della morte: "Ovunque sei", di Michele Placido (Concorso)

Per fortuna abbiano ancora dei registi matti, splendidamente audaci e sinceri come Placido, che con coraggio impavido si addentra nei meandri di una possibile storia d'amore tra due fantasmi. Corpi ormai aleatori che vivono la loro storia d'amore impossibile. Nel cinema italiano?!! Dove se esci fuori dal minimalismo realista tutti ti sparano addosso?

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Passata la rabbia e l'indignazione per il malcostume tutto italiano di linciare i nostri film alle proiezioni stampa (il pubblico, paradossalmente, ha più rispetto per il lavoro dei cineasti della nostra misera stampa), oggi ci chiediamo: cosa ha provocato questa reazione, fatta di scherni risa e urla durante e non alla fine della proiezione? Chissà perché mentre vedevamo il film di Placido lapidato sullo schermo/scherno veneziano, ci veniva in mente un altro film, di un po' di anni fa, che suscitava la stessa reazione: era Velluto Blu di David Lynch, che venne crocifisso per aver osato mostrare le nudità indifese e non erotiche della figlia di Rossellini. Cos'ha in comune il film di Placido con Lynch, allora? Forse proprio quel mostrare l'immostrabile, quello svelare l'unico tabù ancora rimasto in questa società post-moderna che sembra ormai aver masticato ogni cosa, triturata nel gioco della citazione, del mescolamento, del riuso cinico ed estetico. E cosa è immostrabile, oggi? La morte, ovviamente. Ma non la morte come scomparsa, sangue e dolore. Di quello sono pieni tanti film. Ma la morte come sentimento. Come una libera uscita dal mondo, come serena acquisizione di un'(im)possibile altrove.

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E Placido rischia, non gioca sui territori comodi del cinema italiano, che tanto gli avevano fatto amare da tutti il precedente Un viaggio chiamato amore. No, qui abbandona la poesia e l'amor fou, le urla e i pianti, le rincorse i baci e le lacrime dei vivi per dedicarsi a un film funereo e inquietante, quasi un horror gotico e cormaniano, che se invece di Accorsi fosse stato interpretato da un Vincent Price avremmo TUTTI definito un capolavoro. E' vero, Accorsi c'è. Ma possiamo anche guardare il film con occhi differenti, come quando Leonardo (Stefano Dionisi) dice ad una Emma (Barbara Bobulova) disperata e confusa Io ci sono e lui non c'è più. Certo Accorsi non sa proprio, e pure ne vediamo lo sforzo, uscire fuori dalla sua recitazione affannosa e tutta d'un fiato, quasi fosse l'eterno trentenne imbranato di un film di Muccino, che fa un cinema perfetto per le sue corde attoriali. Qui si tratta di passare il muro, attraversare le porte della percezione, i cancelli del cielo, volare come un angelo di Klee sulla propria personalissima storia. Placido prende spunto da Pirandello per infilarsi in un vortice, in quel confine tra la vita e la morte che solo Silberling, al mondo, sa raccontare a perfezione (Casper, City of Angels, Moonlight mile), con rimandi involontari ma sublimi ad Al di là della vita di Scorsese (come Nicholas Cage Matteo è quotidianamente alle prese, sospeso tra la vita e la morte).


Per mezz'ora lascia andare la storia dentro i confini del visibile. Una coppia felice, forse, con qualche lacuna che si affaccia, quella di Matteo (Stefano Accorsi) ed Emma, che vivono con la loro bambina lavorando entrambi in ospedale, lui in ambulanza lei in chirurgia. Matteo fa il piacione con le studentesse cui insegna il difficile lavoro del primo soccorso, mentre Emma non sa sempre resistere alle lusinghe del corteggiamento del collega Leonardo. Piccoli tradimenti, cose che scappano sotto il labirinto dei sentimenti. Ma poi una sera la rete delle coincidenze esplode. Di ritorno da una notte di sesso con Emma, Leonardo appare in preda a un crudele senso di colpa, si distrae dalla guida e va ad incrociare proprio l'ambulanza di Matteo, che è lì con la giovane volontaria Elena (Violante Placido) e che finisce fuori strada da un ponte, finendo nel fiume.


Qui si entra in un gorgo, come quello delle acque del Tevere dentro cui finisce l'ambulanza. E d'improvviso arriva il Pirandello di Placido: Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Ecco qualcosa di indicibile, irrappresentabile. Trascinare la vita come una cosa morta.  E Michele Placido, coadiuvato da un Luca Bigazzi più ispirato che mai e la sua Roma notturna è così bella, dolce, sensibile, irriconoscibile e mai vista da lasciare stupefatta la visione – follemente e con un coraggio impavido si addentra nei meandri di una possibile storia d'amore tra due fantasmi. Due corpi ormai leggiadri e aleatori che di colpo vivono la loro storia d'amore impossibile. Nel cinema italiano????!!!! Dove appena si esce fuori dalle coordinate del minimalismo realista tutti ti sparano addosso? E invece abbiano ancora dei registi matti, splendidamente folli audaci e sinceri da poter mostrare Aldo Moro vivo che passeggia per le strade (ricordate Bellocchio lo scorso anno con Buongiorno notte?) e due vite spezzate che sembrano potersi riconciliare in un'altra dimensione, dove l'amore e il ricordo, la nostalgia e il desiderio, le paure e il dolore, tutto si mescola in una labirintica serena accettazione dell'uscita dal mondo.


Placido realizza un film che nel suo lavoro sui corpi e sulla morte (come un dolce amore) sembra rimandare al cinema più forte bello e rivoluzionario, che stravolge il senso e la visione di questi anni, dall'Eastwood di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, fino a tutto il cinema di Brad Silberling, cineasta uomo che la morte ce l'ha addosso biograficamente e che nel suo cinema e sembra espandersi oltre lo schermo. Poi ci si può vergognare della propria paura della morte, ci si può nascondere dietro il rimosso che solo così ci fa illudere di sentirci vivi, e allora diamo addosso alla recitazione di Accorsi e della figlia di Placido, e scrutiamo le superfici del film. Ma se riusciamo ad entrare, anche solo per un attimo, nel gorgo, Ovunque sei sa regalarci dei momenti di cinema davvero unico che il cinema italiano si sogna da tempo. Ma chi ha il coraggio di affogare nella visione? La vita, e la morte, sono un mistero. Guai a chi si permette di scalfire le nostre squallide e inutili certezze.

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