VENEZIA 63 – L'urlo di Lee e il "canto" di Stone: "When the Levees Broke", di Spike Lee (Orizzonti) e "World Trade Center" di Oliver Stone (Fuori Concorso)

Due modi lontani di vedere la realtà. Incazzato nero Lee, per la gestione politica"dell'uragano Katrina, che ha causato morti e distruzioni; deciso a raccontare storie private di due eroi per caso, invece, Stone. Ma non c'è alcun senso di colpa né di rabbia nel suo film. Lontano dall'urlo di Lee, il cinema di Stone si impantana, forse, definitivamente

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Proiettati per la stampa uno dopo l'altro e presentati oggi al pubblico i due film di Spike Lee e Oliver Stone non sembrano avere molto in comune, a parte il fatto di trattare di due delle "grandi tragedie" americane di questi anni. Lee arriva in Europa con le sue 4 ore e 15 minuti di documentario per la rete HBO, un fiume di immagini, volti, corpi doloranti e straziati, abbandonati e violentati, più ancora dall'uomo che non dalla natura. Stone, quasi all'opposto, prova a far diventare l'11/9 già "storia" e non più l'eterno presente del XXI secolo, omaggiando ai poliziotti che furono ritrovati sotto le macerie diversi giorni dopo l'abbattimento delle torri gemelle.

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Sono due modi lontani di vedere la realtà e di rappresentarla, quelli di Lee e Stone. Incazzato nero il primo, per tutta la gestione "politica" dell'uragano Katrina, che ha causato morti e distruzioni che si potevano evitare, deciso a raccontare le storie private di due eroi per caso, invece, Oliver Stone, con il suo 11/9 dove non c'è spazio per politica, rabbia, rancore o senso di colpa.


Certo stiamo parlando di un documentario e di un film hollywoodiano con le star, e quindi nessuna seria possibilità di paragonare le due pellicole può reggere e avere senso, eppure… When the Levees Broke e World Trade Center, sembrano essere paradigmi interessanti del cinema di oggi.


Spike Lee ha raccontato di aver provato tanta rabbia e disperazione quando, lo scorso anno, proprio da Venezia guardava le immagini della tragedia che si stava abbattendo su new Orleans. Una rabbia non sopita, a giudicare dal suo piglio in conferenza stampa, ma anzi accalorata dal fatto di aver preso telecamere e attrezzature e di essersi calato nella realtà del "dopo-Katrina".


Un requiem in quattro atti, recita il sottotitolo del film, che parte dai giorni precedenti al disastro, quelli in cui l'uragano si avvicinava minacciosamente verso la costa, ed iniziava il grande esodo degli abitanti, ma solo di coloro che potevano permettersi di farlo, con propri mezzi e avendo dove poter andare. Per gli altri non restava che barricarsi in casa, aspettare che l'uragano passasse, e poi riuscire. Oppure andare a rifugiarsi nella struttura più resistente della città, lo stadio Coliseum. Ma, come rivela il film di Lee fin dal titolo, non fu l'uragano a causare le vittime e i disastri, ma la rottura degli argini che proteggono la città dal vicino lago. Da quelle falle le acque si sono riversate nelle strade travolgendo e sommergendo tutto, terre, case, oggetti, persone. L'80% della città fu sommersa dalle acque e moltissime persone morirono annegate, anche dentro le proprie case. Poi, passata la tempesta… le cose sono persino peggiorate.

E' qui che il film di Spike Lee passa con sapienza dalla documentazione dei fatti, dai commenti degli accadimenti, alle "cose da vedere". Perché le immagini viste in televisione sono "lontane", asettiche, e solo vagamente restituiscono quello che realmente è accaduto. Per farlo c'è bisogno di corpi. Di corpi urlanti, bagnati dalle acque dove a fatica riescono a salvare qualcuno dalla morte. Di corpi doloranti, abbandonati da tutti, di vecchi senza medicine lasciati morire, lasciati al sole, per giorni e giorni. Di corpi saliti fino sui tetti delle case, per cercare una salvezza possibile. E, poi, di corpi piangenti, come quelli che ci raccontano in prima persona cosa accadeva in quei giorni, cosa e chi hanno perduto per sempre. E, infine di corpi gonfi, galleggianti per giorni e giorni, morti affogati che "navigavano" a vista per le strade, ormai canali, della città. Spike Lee sceglie di dare voce a tutti, certo, sentiamo le istituzioni, la stampa, i mass media, ma il cuore dell'opera è rappresentato dalle vittime, dagli abitanti di New Orleans. Che urlano e piangono davanti alle telecamere, raccontando i ritardi, le colpe, le omissioni e le bugie del governo americano. Non di rado gli intervistati, fossero persone comuni o giornalisti o artisti, improvvisamente si bloccano, quasi le parole rimangono in gola: la macchina di Lee allora si avvicina, coglie in quell'attimo di silenzio tutto il dolore inesprimibile, che non sa più risolversi solo in un pianto. Dal primo piano si passa al primissimo piano, il volto dell'intervistato si irrigidisce, come singhiozzante, fino a quel dolcissimo "sorry", ripetuto più volte, che sembra strappare e squarciare quel silenzio con tutto il dolore del mondo.


Dalle tante interviste che compongono questo monumentale, passionale, sanguigno e straordinario documentario di Spike Lee (ne abbiamo contate ben 90, almeno nelle immagini finali  dove ogni intervistato si presenta al pubblico), delle tante parole che i protagonisti usano per raccontare il dramma (del presente ancora terribile come del futuro che non lascia adito ad ottimismi di alcun genere), sono proprio i silenzi quelli che emergono dalle acque che hanno sommerso New Orleans. Silenzi squarciati poi dalle musiche jazz del profondo sud, del Mississipi, dove il jazz è nato. Lee ha lanciato il suo grido, non tanti anni dopo ma ORA, che la tragedia è ancora viva, e che la gente ancora soffre per tutto quel che ha perduto per sempre. 255 minuti che non ti lasciano tregua, non ti lasciano respirare, e neppure per un attimo puoi distogliere lo sguardo dalle immagini.  E il dolore di una città che diventa un corpo unico sanguinante e lacerato, urlante. A chiedere aiuto a governanti che mentre la tragedia incombeva erano a fare shopping…

E' straziante il grido di Spike Lee, lascia i segni sullo spettatore che non è più lo stesso


dopo questa esperienza, segnato da quei volti che ormai ci appartengono per sempre.


Cineasta del presente, Spike Lee, del resto, il suo 11/9 lo aveva già raccontato, in quel capolavoro che era La 25aora…. Mentre Oliver Stone arriva sempre "dopo". Dopo la storia, dopo i fatti, dopo le storie raccontate da altri, per raccontare con il suo lirismo spassionato e tecnicamente gelido, quasi da archeologo dell'immaginario collettivo dei nostri tempi. Il suo World Trade Center non declama, non polemizza politicamente, non urla. Ma sceglie di raccontare UNA storia, una piccola grande storia, di poliziotti/eroi che per salvare gli altri si ritrovano incastrati sotto le macerie del crollo delle Twin Towers. Sono i privati degli eroi che interessano Stone. Le loro storie diverse, uno aspetta un figlio dalla moglie ed è ancora "felice", mentre l'altro, con già 4 figli, ha "smesso di guardarsi", con la moglie, che lascia a letto senza salutare la mattina, nella prima sequenza del film. Ma è un amore che sta spegnendosi per le difficoltà della vita, come capita spesso a tanti amori, quello tra John McLoghlin (Nicolas Cage) e la moglie  Donna (Maria Bello). I figli, il lavoro, i ritmi della corsa quotidiana, sta allontanandoli. E ci vorrà la "grande tragedia", forse, per riavvicinarli. Mc Loghlin e il suo collega Jimeno (Michel Pena) corrono dentro il World Trade Center per cercare di mettere in salvo più persone possibile, ma proprio mentre stanno nel bel cuore del Centro avviene la caduta della seconda torre. Qui l'effetto, soprattutto sonoro, ma anche visivo, del film è di grande qualità, e Stone raggiunge il vertice della sua "poetica lineare" quando dalle macerie dove sono sepolti i due poliziotti, di cui nel  buio intravediamo appena i volti doloranti, lentamente con la mdp esce fuori in superficie a mostrare i resti del WTT, fino a risalire più su e vedere Manhattan, poi tutta New York, l'America, e poi su fino a un satellite che sembra osservare il pianeta terra. Ma non è il tragitto filosofico di Contact, che andava ad ascoltare da altri mondi i suoni del nostro pianeta.

Questo virtuosismo Stone lo lascia lì, isolato, come i due poliziotti che solo dopo tantissime ore hanno trovato qualcuno che li raccogliesse da lì sotto. E da qui in poi Stone – che pure nelle prime immagini della New York all'alba sembrava riuscire a cogliere come una sorta di "innocenza" –  riesce davvero a dare il peggio di sé: dal sogno di Gesù con la bottiglia d'acqua del poliziotto ispanico, alle convenzionalissime storie delle mogli dei due poliziotti, fino all'epica figura del marine che decide di andare a salvare qualcuno, li troverà e poi (come dicono i titoli di coda) finirà a combattere in Iraq. Un empasse terribile, quello di Stone, che celebra l'America come terra di eroi, di famiglie forti e di "bravi ragazzi", fedeli alla bandiera e alla patria.  Niente riflessioni sul perché l'11/9, né sul dopo. Solo la certezza di una nazione dai nervi saldi e dagli uomini decisi e valorosi. Non c'è una titubanza, un attimo di esitazione nel film, e forse l'unico vero "atto umano", disperato, resta proprio quel suicidio improvviso, del terzo poliziotto rimasto sotto le macerie,  ferito e senza più forze per lottare. Stone riesce ad emozionare più con la claustrofobia che le sue immagini, con i primi piani dei due eroi intrappolati, suscitano. Ma i flashback e i sogni dei due sono imbarazzanti.  Non c'è alcun senso di colpa, né di rabbia nel suo film. Lontano dall'urlo di Lee, il cinema di Stone si impantana, forse, definitivamente. Anche se spesso ha, almeno in passato, saputo sorprenderci.  


 

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