VENEZIA 66 – "Lebanon", di Samuel Maoz (Concorso)

lebanon

Primo lungometraggio del regista israeliano in cui si racconta la Prima guerra del Libano, nel giugno del 1982 e la tragica vicenda di quattro giovani soldati. Buona prova che va oltre la schematica e scontata rappresentazione della guerra e che riesce invece a scandagliare il tessuto umano devastato e i brandelli psicologici che la violenza semina senza voltarsi mai indietro. L’obiettivo del cannone è l’occhio del regista che setaccia il “fuori” minaccioso, mentre all’interno di quell’ammasso di lamiere si traccia il lungo solco traumatico di chi la guerra avrebbe solo voluto raccontarla

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lebanonEsordio al lungometraggio per il regista israeliano in cui si racconta la Prima guerra del Libano, nel giugno del 1982. Serio candidato al Leone del Futuro/Premio Luigi De Laurentis, Samuel Maoz ha tratto questa storia dalla sua esperienza personale, perché egli stesso, ventenne, è stato un dei primi reclutati a varcare la frontiera libanese. Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una piccolo paese ostile, precedentemente bombardato dall’aviazione israeliana. I militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale. Quando scende la notte i soldati feriti restano rinchiusi nel centro della città, senza poter comunicare con il comando centrale e circondati dalle truppe siriane. Una squadra di carristi – Shmulik, l’artigliere, Assi, il comandante, Hertzl, l’addetto al caricamento dei fucili, e Yigal, l’autista – composta da quattro ragazzi di vent’anni che azionano una macchina assassina. Tutt'altro che coraggiosi eroi di guerra ansiosi di combattere e di sacrificarsi…
È proprio il carro armato a rappresentare il punto di osservazione di tutta la pellicola, che parte con l’inquadratura di un campo di girasoli e si conclude con la stessa, “arricchita” dal possente e ingombrante mezzo militare. L’obiettivo del cannone si trasforma nell’occhio del regista che setaccia il “fuori” minaccioso, mentre all’interno di quell’ammasso di lamiere si traccia il lungo solco traumatico di chi la guerra avrebbe solo voluto raccontarla. Buona prova che va oltre la schematica e scontata rappresentazione della guerra e delle sue parti in gioco (israeliani, siriani, libanesi, falangisti) e che riesce invece a scandagliare (magari con qualche effetto scenico di troppo) il tessuto umano devastato e i brandelli psicologici che la violenza semina senza voltarsi indietro. Insiste sui primi piani di ragazzi scaraventati allo sbaraglio che sentono vicina la fine. Non e’ un voler vedere meglio, un voler acuire la vista e la memoria, ma un perdersi, mai pero’ follemente, in una ipotetica e ulteriore trasfigurazione della verita’ agognata. Si vede piu’ di quanto vediamo, più di quanto quell’obiettivo ridotto può mostrare: il visibile e’ una piega dell’invisibile, ancora una volta lo sguardo non e’ un occhio piu’ potente: è altro. Come se fosse la storia a guardare i protagonisti e i loro tormenti. E’ proprio questo strano ed efficace rivolgimento dello sguardo (dentro/fuori la macchina) di cui il regista israeliano sembra a volte vittima e prigioniero, a trattenere una pericolosa pratica visionaria e allo stesso tempo deriva idealistica, accedendo così alla visibilita’ perche’ incontra in fondo lo sguardo delle cose. Perche’ riesce, grazie a questo incontro, a collocarsi come tormentato vedere dall’interno.
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