VENEZIA 67 – "Attenberg", di Athina Rachel Tsangari (Concorso)

Attenberg, di Athina Rachel Tsangari (in concorso a Venezia 67)Attenberg funziona proprio come l'odore di un portone, di una federa, o di una casa nuova –  di quelli che non sappiamo classificare: sono chimici, o seducenti? Le scapole alate sono residui di animale o promesse angeliche?  – che alla fine si svela per un altro film di attesa e di commiato (come in modi diversissimi Post MortemPromises written in water) capace di commuovere, se non si perde il cuore della sua natura: una barzelletta sporca che contiene solo ciò che viene a mancare dietro la risata violenta o la freddura, uno spettacolo malinconico di Lenny Bruce

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Attenberg, di Athina Rachel Tsangari (in concorso a Venezia 67)"Mi piacerebbe realizzare un film che possa funzionare come un odore irritante che permea le cose"

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Athina Rachel Tsangari, 2001

 

Questa nuova onda greca si prende tutto il tempo per mostrare il suo vero volto, ma intanto lavora alla luce del giorno, come un'epidemia, senza mostrarne l'esplosione, ma raccontandone ogni sintomo. All'inizio, complice la travolgente colonna sonora new wave che sottolinea prati curati e innaffiatoi, salotti e villini (i Suicide, gruppo preferito di Marina) ci sembra di essere dalle parti di Kynodontas, di Yorgos Lanthimos – qui produttore e attore nei panni dell'Ingegnere con un buon odore che senza fare nulla ispira fiducia alla ventitreenne misantropa. Ma se con Kynodontas condivide alcune tematiche, alcune forme e una libertà di esprimersi che fa pensare davvero a un piccolo ma battagliero "movimento" che sta cambiando profondamente il cinema greco contemporaneo, Attenberg è un film più semplice, forse più immediato. C'è un'altra famiglia: Marina, suo padre, malato di qualcosa che non passerà di certo, capace di dire verità che non piacciono, un'amica inseparabile, un po' zotica, che si definisce esperta di sesso, e un ingegnere silenzioso un po' stempiato in grado di assorbire con un corpo normale la goffaggine, poi l'erotismo, poi la rabbia di Marina.
Tierische Liebe di Ulrich Seidl era un documentario austriaco sugli esseri umani – mediocri, spaventosi, spaventati – attraverso le pratiche affettuose, tristi ed eccentriche a cui si dedicavano con i loro animali da compagnia; Attenberg è un documentario sulla natura umana che scopriamo insieme a Marina, personaggio complesso, che sa anche destare antipatia, è insieme uno studio di urbanistica mortuaria, una storia sempre velata di satira, anche religiosa e  politica nel senso più universale del termine, che con le apparenti eccentricità dei personaggi, sostanzialmente sane, mostra invece la devianza di un altro mondo che vive secondo leggi burocratiche malate (il consenso del morente a ricevere una newsletter sulla sepoltura).

Se fosse tutto qui, niente di nuovo. Però il film si trasforma mentre viene proiettato: piano piano, le lezioni di baci, le camminate buffonesche delle due ragazze, il loro rapporto scontroso e un po' folle, che non ha nulla del cameratismo adolescenziale di scoperta reciproca che siamo abituati a immaginare, i discorsi apparentemente provocatori o strampalati di Marina con il padre, si collocano in un contesto Attenberg, di Athina Rachel Tsangari (in concorso a Venezia 67)di emozioni che sembravano non comparire, declinano nei tornanti di un paesaggio che è freddo, costellato dalle fabbriche, raramente assolato– solo in un frangente che ricorda Il tempo che resta e in genere l'amore di Ozon per riflettere l'abbandono della vita o la sua celebrazione nello specchio del mare). La "mangiauomini" Bella ammutolisce, accettando di trasformare i suoi flirt in un sesso consolatorio da somministrare al padre della sua amica. Le imitazioni degli animali nei documentari di Sir David Attenborough (il titolo del film è il suo cognome, che Bella non sa pronunciare), i momenti di gioco selvaggio tra padre e figlia che prima sembravano quasi siparietti artificiali, assumono tutta la straziante consistenza delle ultime volte, e il ballo scoordinato con cui la figlia si separa definitivamente dal corpo del padre dona un altro senso a tutte le canzoni, come a quella che salta dalle labbra delle ragazze a illustrare per un istante il loro mondo stranamente provinciale eppure omologato, per poi tornare nelle loro voci. Alla luce della fine (del film. Di quell'uomo) i pezzi si ricompongono, il film lascia i vestiti e resta nudo, come rapporto tenerissimo tra genitore e figlia, tutti e due a loro modo anarchici: la routine del motorino in due, della dialisi, del motoscafo, tutto diventa amorevole e disperato, lenta preparazione di un corpo alle pratiche formali della morte – il dialogo sulle ceneri e sui vermi – discussa come se fosse una barzelletta sporca che contiene il dolore – ciò che viene a mancare, ciò che manca – dietro la risata violenta o la freddura, uno spettacolo malinconico di Lenny Bruce.

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