VENEZIA 67 – Il cinema è ancora qui

la giuria presieduta da tarantino
Aldilà delle critiche, la verità è che Müller è riuscito a trasformare l’istituzione in un laboratorio, il museo in uno spazio aperto e vivo, coniugando il mercato e la solitudine, il mainstream, la sperimentazione e il rischio, l’Impero e l’altro mondo. E ricercando sempre, nell’uno e nell’altro caso, un cinema assolutamente libero e dirompente
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la giuria del concorso presieduta da tarantinoRicaricate le pile, proviamo a tracciare il bilancio di questa 67ª Mostra di Venezia. Serviva un pausa, perché diciamocelo, questo Festival assomiglia sempre più a un girone infernale, dove smarrirsi è sin troppo facile. Una disorganizzazione a volte avvilente, spazi sempre più ristretti, per via del cantiere del nuovo Palazzo del cinema (bloccato perché, a quanto pare, mancano i soldi per bonificare la zona dall’amianto), un’endemica carenze di sale, strutture ormai fatiscenti, al punto che un paio di acquazzoni hanno mandato in tilt la sala stampa. E poi le solite stortura del sistema culturale italiano, con le proiezioni riservate (a chi?) e le sale mezze vuote. Insomma una situazione logistica veramente precaria, al di sotto delle esigenze minime di un festival di queste dimensioni. Ma a Venezia ci torniamo comunque. E’ la passione che ci frega. Perché Marco Müller e la sua squadra in questi anni sono riusciti a metter in piedi un festival di qualità straordinaria, pressoché ineguagliabile. Checché ne dicano certi parrucconi della stampa che pretendono i capolavori e sputano veleno, ma in fondo considerano il cinema un puro e semplice lavoro da sbrigare in tutta tranquillità. Ancora ieri, Il Tempo titolava E ora Müller si dia pace Brutto festival. “La Mostra di Venezia appena archiviata è stata meno che memorabile… Forse non ci sono più i grandi registi. Ma soprattutto ci si ostina a privilegiare la pellicola autoriale, d'èlite, che manda in visibilio gli intellettualoidi, i cinefili trinariciuti”. Ma di
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monte hellman e shannyn sossamonquale festival stiamo parlando? Come se
The Town e Vallanzasca, i film di Andrew Lau e Tsui Hark fossero dei film d’èlite? La verità, come viene fuori anche dall’intervista di fuoco che Marco Müller ha rilasciato ai colleghi delle testate online, è che questo festival ha segnato definitivamente lo scollamento tra chi il cinema lo ama, lo desidera, lo mangia (come sognava Enzo Ungari) e una certa critica ormai becera e stantia, incapace di cogliere le linee e le direzioni e di interpretare i gusti del pubblico, probabilmente molto più avanti nel capire e nell’apprezzare ciò che il panorama offre. Non una casta, caro direttore, ma un catasto, fatto da grigi impiegati, che cercano di chiudere al più presto la giornata, per poi tornare alle piccole comodità e agli stanchi privilegi. Con tutto il rispetto per gli impiegati del catasto, tra cui sono cresciuto.
La verità è che Müller è riuscito a trasformare l’istituzione in un laboratorio, il museo in uno spazio aperto e vivo, coniugando il mercato e la solitudine, il mainstream, la sperimentazione e il rischio (basti pensare alla sezione Orizzonti, Sion Sono, Ken Jacobs, Xun Sun), l’impero e l’altro mondo. E ricercando sempre, nell’uno e nell’altro caso, un cinema assolutamente libero e dirompente, come i salti mortali di Chen Zhen e gli sberleffi luciferini di joaquin phoenix i'm still hereVallanzasca. La scelta stessa di assegnare il Leone d’oro alla carriera a John Woo è sì roba da appassionati, ma anche l’ennesima e definitiva consacrazione di un cinema che fa saltare i confini tra gli incerti concetti di arte e spettacolo, che se ne frega dei limiti e punta a inseguire i propri sogni e i nostri desideri. E in questo senso appare decisamente più sclerotizzata una selezione come quella di Cannes, che premia ancora un cinema nato morto come quello di Michael Haneke. Quale altro grande festival, negli ultimi anni, è riuscito a premiare film decisamente rivolti a un immaginario collettivo, come Brokeback Mountain, Lussuria, The Wrestler, Somewhere? Quale altro grande festival è capace di pensare a una retrospettiva sul comico, recuperando titoli popolari come Eccezzziunale…veramente, Vacanze di Natale, Il commissario Lo Gatto, Il ragazzo di campagna (ma il treno è sempre il treno!!!)? Giusto Torino, Locarno, ecc… E questa Venezia ormai è veramente una riserva indiana, un rifugio per magnifici drop out, per coloro che vivono il cinema come un atto d’amore (e sofferenza). Monte Hellman, Paul Morrissey, lo stesso ciecamente bistrattato Vincent Gallo. Forse davvero ci si sofferma su pochi titoli, come se il cinema fosse un pacco da farsi recapitare a casa, e non un’immensa frontiera West da esplorare con coraggio, intelligenza, fiducia, voglia di abbandonarsi. Come nella magnifica parabola politica di Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt. E’ vero che Venezia oggi vuol dire qualità, spettacolo e meraviglia. Una miniera che quest’anno ha regalato una serie di perle indimenticabili, film che hanno messo a dura prova cuore, menti e lacrime. Fuori concorso The Town e Vallanzasca, appunto. E poi somewhereSorelle mai, altro corpo alieno e ribelle del cinema mai domo di Bellocchio, Su Chao-Pin e John Woo, la napolitudine di Turturro. Nel concorso, ancora, Essential Killing, prova stremata e stremante di un cineasta, Skolimowski, capace di porsi ancora le domande essenziali (come sopravvivere all’inferno che ci circonda) e di un attore, Vincent Gallo, oramai proiettato in una folle dimensione di perfezione. Somewhere, film di un’autenticità rinnegabile solo in mala fede. E poi, almeno per chi scrive, Norvegian Wood, l’estetica che si fa sentimento di Tran Anh Hung, Potiche, magnifica boutade che sembra provenire da un’altra epoca, ma in realtà è lo specchio fedele di questi tempi, dei nostri ritmi inarrestabili e dei nostri vizi insanabili. E ancora Martone, il rosselliniano, e la sacra dissacrazione di Takashi Miike, l’orrore della storia di Wang Bing, e Tsui Hark, Pablo Larrain… E su tuttiI’m still Here, vertigine herzoghiana di un corpo/divo martire, corpo (parola d'ordine di questa Mostra) mutante che racconta il dolore e la magia del cambiamento, A Letter to Elia, miracolosa autobiografia tratteggiata attraverso il cinema visto e amato. E l’immensità di Road to Nowhere, film sulla fine (impossibile) del cinema e sulla sua perdita di identità, ma anche atto di fede smisurato. Ma, come già detto, anche dei film meno convincenti rimane pur sempre una traccia, che lavora sottopelle e riaffiora a intermittenza, come un lampo che illumina con la forza dell’emozione e del sentimento. Sul palmarès si può discutere, ma di certo i film più convincenti del concorso hanno avuto un riconoscimento. Manca il film di Gallo, dolente elegia cassavetesiana, straordinario corpo malato e scioccante di un cinema che è un affare troppo personale per essere pubblico. Ma l’attore ‘fantasma’ è stato recuperato grazie al premio al film di Skolimowski. Si può non condividere il doppio premio a de la Iglesia, trionfo del Tarantino-pensiero. Ma resta il fatto che, aldilà delle polemiche stupide e le chiacchiere da bar, Somewhere è davvero il film che mette d’accordo tutti. Perché riesce a coniugare queste due anime magnifiche della Venezia mulleriana: la personalità e il pubblico, la sincerità e la comunicazione, l’egoismo dei sentimenti e la generosità della bellezza.
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    3 commenti

    • grazie, Aldo.Sono certa che tu sia riuscito a comunicare, a chi non c'era, la ricchezza e densità di questo festival e, a chi c'era, un quadro sintetico e sentito di ciò che tutti abbiamo provato, arricchiti da un cinema ancora in grado di migliorarci.

    • Spiniello…. Eccezzzziunale veramente!!!

    • E sì, bisognerebbe davvero fare i complimenti a Mueller per una mostra viva, ricchissima, straordinaria. Forse con qualche assenza eccellente (Eastwood, Boyle, Redford, Weir), ma piena di sorprese e di cinema senza steccati.Ognuno poi ha i suoi preferiti: a mio avviso non riconoscere l'eccezionalità di Post Mortem e Silent Souls e dello stesso Miike, trionfatore del festival dentro e fuori del concorso, è stato un errore.Ma queste sono punteggiature, in un discorso comunque meritevole di attenzione.Che poi la critica ufficicale non se ne sia accorta… inseguendo polemiche da bar sport… è il segno di un imbarbarimento impiegatizio che lascia il tempo che trova.