VENEZIA 67 – "Limbunan (La stanza della sposa)", di Gutierréz Mangansakan II (Settimana della critica – Fuori concorso)

L’esordiente regista filippino Gutìèrrez Mangansakan II è un giornalista e fotografo che vuole chiaramente trasportare al cinema tutte le sue ossessioni formali sulla ricerca fotografica. Il suo è un elogio della lentezza e della contemplazione, strutturato per quadri fissi che catturano tutto il meraviglioso “peso” della natura che circonda la protagonista

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Limbunan, di Gutierrez Mangasakan II

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Limbunan è un film che fotografa l’attesa. Riproduce un ferreo rituale tradizionale e si adagia sulla lentezza del prendere coscienza delle cose che ci circondano. Si sofferma quindi su tutto il “prima” di un evento che cambierà irrimediabilmente ogni coordinata di vita.

L’evento in questione è il matrimonio di Ayesah, una ragazza filippina che deve ottemperare al dovere di sposarsi con un uomo scelto dalla sua famiglia solo per ragioni di mera convenienza, abbandonando così il ragazzo che veramente ama. Ci sono tanti sentimenti suggeriti nella lenta rappresentazione della preparazione di questa giovane sposa: c’è lo scontro tra vecchie e nuove concezioni di comunità, ci sono i problemi legati al libero arbitrio quando è castrato da una società fortemente gerarchizzata, c’è un’analisi della condizione femminile cronicamente sottomessa e ci sono gli echi di violenza (solo suggeriti) che una condizione politica altamente instabile produce. Insomma, ci sono fantasmi molto umani che si agitano dietro le gesta di questa fragile donna. L’esordiente regista filippino Gutìèrrez Mangansakan II è un giornalista e fotografo che vuole chiaramente trasportare al cinema tutte le sue ossessioni formali sulla ricerca fotografica. Il suo è un elogio della lentezza e della contemplazione, strutturato per quadri fissi che catturano tutto il meraviglioso “peso” della natura che circonda la protagonista. La straordinaria bellezza del paesaggio filippino ha qualcosa di conturbante, suggerisce una ineluttabilità nel destino di chi lo abita: Ayesah interroga incessantemente le donne che la circondano per capire i perché di una vita priva della libertà che desidera, la libertà di scelta, e le risposte sono tutte da ricercare in questa sensazione di antica e naturale predestinazione a cui lei non può sottrarsi. Sensazione che il regista contribuisce a sottolineare con l’imponenza dei suoi campi lunghi dipinti da una fotografia ipersatura e dominata dai toni scuri. È innegabile il fatto che il regista prediliga fortemente la forma (ma come potrebbe essere altrimenti trattandosi di un fotografo?) al contenuto, ossia all’analisi socio/culturale che si vuole sottintendere e che forse pecca di qualche semplificazione di troppo. Rimane però la forte sensazione di un racconto per immagini, concepito dalle immagini, che ricorda idealmente il cinema alienante del grande Apichatpong Weerasethakul.  

 

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