VENEZIA 68 – "Whore's Glory", di Michael Glawogger (Orizzonti)

whore's glory

Anime e corpi che transitano, trasmigrano, si ammassano in un’inquadratura che fa fatica a contenerli e diventa liquida, instabile, opaca. Insomma un (non) cinema del (non) reale che sfida lo spettatore su un terreno di confine: cos’è fiction e cos’è documentario? Glawogger traccia traiettorie di disperazione filosoficamente identiche eppure costantemente diverse e immerge lo spettatore in rituali e strategie che si fanno specchio e interfaccia dell’intera rete dei rapporti umani odierni

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Whore's GloryAnime e corpi che transitano, trasmigrano, si ammassano in un’inquadratura che fa fatica a contenerli e diventa liquida, instabile, opaca. Insomma un (non) cinema del (non) reale che sfida lo spettatore su un terreno di confine: cos’è fiction e cos’è documentario? Terzo capitolo di una trilogia saggistica dedicata alla globalizzazione (dopo Megacites e Workingman’s Death) dal regista e fotografo Michael Glawogger, questo Whore’s Glory traccia i confini di un triangolo di quartieri a luci rosse che parte dalla Thailandia, passa per il Bangladesh e termina nella desolata Zona messicana. Il sesso come grado zero dell’osservazione antropologica e culturale: regno di istinti che si fanno largo tra luci e colori, povertà e sofferenza, sfruttamento e libido sfrenata. Le prostitute della “turistica” Bangkok sono come attente imprenditrici di loro stesse: lavoratrici che timbrano ogni giorno il cartellino e si immergono in un universo fatto di immagini (le loro) e sguardi (dei clienti), che pongono a priori l’occhio dello spettatore come primo organo penetrante doppiando il meccanismo/cinema in una spirale voyeuristica. Il sesso però non è mai visto: ci si ferma sempre sulla soglia del piacere e la macchina da presa diventa testimone imparziale di un fenomeno che spiazza nella sua organizzazione quasi industriale. Trasferendoci in Bangladesh la situazione cambia radicalmente: la prostituzione è atto di sopravvivenza e paradossalmente di “indipendenza” femminile, che si disperde in viuzze e anfratti di uno spazio del sesso diventato unico e solo orizzonte del compulsivo desiderio maschile. Una povertà che si placa solo sfogandosi sul “corpo” di donne giudicate «schifose da fuori, ma amate in queste strade» come dice una di loro. E poi il deserto del Messico, dove i corpi femminili sono aggressivi e dominanti, quasi consapevoli di una dannazione che non può avere via di fuga: «è Natale per tutti, ma a noi continuano a fotterci!». Il film tralascia ogni classica strategia documentaristica, sfilaccia il tempo che diventa non più costruttore di situazioni ma di “consapevolezza” e si gioca tutto sul terreno della sovrapposizione di percezioni e di strutture nascoste nelle pieghe di una narrazione asservita solo alle immagini. Spingendosi addirittura a mostrare un vero (?) incontro sessuale prostituta-cliente in una scena che inabissa totalmente il confine tra fiction e ripresa del “vero”, acuendo di molto l’effetto straniante. Glawogger, insomma, traccia traiettorie di disperazione filosoficamente identiche eppure costantemente diverse nel loro grado di consapevolezza; immerge lo spettatore in rituali e strategie che si fanno specchio e interfaccia dell’intera rete dei rapporti umani odierni e riesce così a scovare (sommersa dallo squallore e dalla polvere della strada) quella “gloria” del sopravvivere vista come atto umano nobile e altrettanto “primario”.

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