VENEZIA 69 – "San Zimei (Three Sisters)", di Wang Bing (Orizzonti)


Il cinema di Wang Bing è esperienza. Flusso immanente di movimenti, rituali, piccole epifanie visive e sentimentali che innescano (anc)ora un miracoloso contatto con gli spazi, con la virtualità del reale, con l’immagine (del) tempo. Un cinema che accetta la sfida di prescindere dal linguaggio (la tradizione del cinematografo) e da ogni programmabilità (tipica del digitale) configurando in ogni inquadratura, stacco di montaggio, piano sequenza, la radicale tensione verso un mero movimento dei corpi che testimoni un sentimento. Wang Bing crede e ci fa credere ancora nelle immense possibilità del cinema…

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Il cinema di Wang Bing è esperienza. Flusso immanente di movimenti, rituali, piccole epifanie visive e sentimentali che innescano (anc)ora un miracoloso contatto con gli spazi, con la virtualità del reale, con l’immagine (del) tempo. E allora urge allontanarsi immediatamente dalla inutile distinzione tra fiction e documentario, in un film che da un lato cattura la vita dei suoi soggetti/complici e dall’altro radicalizza il discorso tutto rosselliniano sulla composizione, sulla pressione del fuori campo, sulla cine-testimonianza sentimentale.

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Three Sisters riprende l’esistenza di una famiglia contadina cinese che vive in uno sperduto villaggio montuoso dello Yunnan: un padre, tre bambine e molte difficoltà economiche. Badare agli animali, procacciarsi il cibo, mangiare, sorridere, piangere e dormire. Noi con loro per 153 minuti. Ecco, la videocamera digitale di Wang Bing vuole essere semplicemente quel con, dimostrando una consapevolezza teorica quasi feroce nel rilanciare oggi il discorso sulla perdita di referenzialità del digitale e sul valore testimoniale dell’immagine odierna. Questo è un cinema che accetta la sfida di prescindere dal linguaggio (la tradizione cinematografica) e da ogni forma di programmabilità (le immense frontiere del digitale) configurando in ogni inquadratura, stacco di montaggio, piano sequenza, una radicale tensione verso il mero movimento dei corpi. Inseguendoli, pedinandoli, avvicinandoli con pudore e lasciandoli soli, ma riconsegnando loro con clamorosa sincerità il tempo dell’esistere e lo spazio dell’operare. Ed è il coraggio di investire in quest’accumulo che porta a testimoniare, non certo una realtà fattuale ma una verità sentimentale, nitida e tutta umana.

Hic et Nunc: ma come? Con la fatica del cinema e dello spettatore. Cinema vivo che lotta insieme a noi, che fa sentire i sospiri affannati dell’operatore dietro la macchina da presa o che ci strattona dentro in prima persona con la straordinaria irruzione di una capra belante che lo punta, lo scopre, lo sfida e lo fa esistere. Poi, da spettatore, certo che è un film difficile! Dietro ogni inquadratura si muove un magma pulsante di impegno politico (la denuncia della condizione contadina in certe zone della Cina), umano (il rapporto stretto del regista con ogni persona che filma), morale (una ferrea etica herzoghiana nel non filmare mai il pornografico). E, infine, questo è un film di consapevolezze e conquiste: la piccola conquista dell’autobus per andare a scuola a tentare un’istruzione o l’immensa conquista del sorriso di una figlia da parte di un padre che lotta per farla mangiare e crescere. Wang Bing crede e ci fa credere ancora in un cinema al di sopra di qualsiasi parola, regola o sovrastruttura. Del resto, il cinema di Wang Bing è "solo" struggente esperienza…

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    Un commento

    • Non riesco a trovare il Dvd di questo film, ne' in francese, ne in inglese, ne' in tedesco…incredibile!