VENEZIA 70 – Intervista ad Andrea Segre (La prima neve)


“Come in ‘Io sono Li’, c’è un protagonista che viene da lontano, da un altro mondo, da un’altra cultura. Così tu spettatore credi che sia un film simile. E invece poi ti accorgi che il tema vero del film è un altro". Andrea Segre racconta il suo film La prima neve, applaudito in sezione Orizzonti alla Mostra del cinema di Venezia

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“Come in ‘Io sono Li’, c’è un protagonista che viene da lontano, da un altro mondo, da un’altra cultura. Così tu spettatore credi che sia un film simile. E invece poi ti accorgi che il tema vero del film è un altro. Che è la storia di un bambino senza un padre, e di un padre che non riesce ad amare una figlia. Che è una storia di perdite esistenziali. E del percorso necessario per imparare a convivere con queste perdite”.

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Andrea Segre racconta il suo film La prima neve, applaudito in sezione Orizzonti alla Mostra del cinema di Venezia. E’ anche il giorno del suo compleanno. Arriva con una camicia bordeaux, pantaloni chiari, polacchine di camoscio. E barba alla Ascanio Celestini, o da scalatore alpino. Accanto a lui, il protagonista del film, Jean-Christophe Folli, attore di colore che interpreta un togolese rifugiato nella valle dei Mocheni, ultima Thule del Trentino.

Prima di tutto, Segre: come ha trovato questo attore, e il bambino, Matteo Marchel, che dà al film una forza e un colore emotivo straordinario?
“Per quello che riguarda Jean, volevo un attore di origine africana che fosse capace di raccontare esperienze di fuga, di perdita umana, di smarrimento. Jean mi ha stupito per la capacità di unire, nella sua recitazione, dolore e dignità”.

E Matteo?
“Avevamo scritto, insieme a Marco Pettenello, un ruolo per un ragazzo più grande di lui. Al provino, lui si è portato dietro la fisarmonica. Perché suoni? Gli ho chiesto. ‘Perché così quando sono arrabbiato mi sfogo’, ha risposto. E allora ho capito che era inutile cercare un quindicenne che avesse tratti emotivi da bambino: potevo trovare un bambino capace di avere le reazioni di un quindicenne, e la sua rabbia, la sua forza”.

 Avete lavorato a lungo con gli attori prima delle riprese?
 “Sì. Abbiamo cercato di dare tempo all’incontro delle persone, prima ancora che dei personaggi. Volevamo che si creasse un legame reale tra loro”.

Matteo, che cosa significa per te questo film, presentato a Venezia?
“Tante emozioni. Quando lo ho girato, non mi rendevo conto dell’importanza di questa cosa. La prendevo in modo superficiale. Ma poi mi fermo e penso: ma ho fatto un film? Io? E mi riempio di emozione”.

Anita Caprioli, lei interpreta una madre a cui il figlio addossa la colpa di una perdita enorme. Come è stato affrontare questo ruolo?
“Ho capito una cosa: che nel compito di una madre c’è anche la capacità di prendersi colpe non sue. Il figlio ha una rabbia terribile, che riversa sulla persona che ha più vicina: la madre. E il mio personaggio accetta, con fatica, senza saper bene come fare, una responsabilità non sua”.

La fotografia del film è potente, luminosa, ricca. Come ha lavorato con Luca Bigazzi, direttore della fotografia?
“Quello che abbiamo imparato a fare, con Luca, è sorprenderci dei luoghi, delle situazioni. Entrare in un bosco per girare significa non sapere mai che cosa succederà con la luce, con i colori, con le foglie, con il cielo. E la cosa più importante è tenere un atteggiamento di ascolto, essere recettivi. Raramente discutiamo un’inquadratura prima di arrivare in un luogo. Ci piace, insomma, andare ad ‘ascoltare’ i luoghi”. 

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