VENEZIA 70 – “Miss Violence”, di Alexandros Avranas (Concorso)

miss violence
La festa di compleanno in una famiglia apparentemente felice, si trasforma in un giorno di tragedia, spalancando le porte verso il baratro. Nessun riferimento preciso, nessun appiglio sicuro, solo tanta naturale e devastante devianza. In salotto la televisione è sempre accesa e spesso ci si sofferma sui documentari di animali, soprattutto dei primati, i cui versi sovrastano o accompagnano gli sguardi persi dei personaggi, la lobotomica incongruenza del quotidiano   

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miss violenceLa festa di compleanno in una famiglia apparentemente felice, si trasforma in un giorno di tragedia. La bambina festeggiata si lancia dal balcone mentre i suoi familiari si riuniscono per la consueta foto di gruppo. Parte così la vicenda drammatica in un quartiere residenziale della città che sotto la quiete di facciata nasconde terribili segreti. Il trentaseienne scultore, pittore e regista greco rappresenta sicuramente una delle novità più interessanti del nuovo cinema ellenico.

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Al suo secondo lungometraggio, dopo Without del 2008, acclamato esordio presentato al Milano Film Festival e a Salonicco. Alla pressante e peculiare tentazione di lavorare sul “non detto e non visto”, per cui la violenza più efferata sarebbe quella del silenzio, l’autore dimostra una certa disinvoltura tecnica, trovando soluzioni visive e narrative non certo scontate. Come ad esempio, l’inquadratura dall’alto che riprende il corpo senza vita della bambina suicida o addirittura un lungo piano sequenza con pseudo soggettiva, che accompagnano i funzionari dell’assistenza sociale durante l’ispezione dell’appartamento, dopo il tragico incidente. Tutto ciò strutturato all’interno di una feroce e caustica rappresentazione della violenza che si dipana lentamente, senza particolari scene di esplicita durezza, ma con l’inesorabile incedere della tragedia, culminante in un prolungato rapporto anale, piccole ma sempre più ricorrenti efferatezze psicologiche.

 

Senza stravolgimenti di sguardo, Avranas sembra però riconoscere i tratti distintivi della crisi economica, sociale e culturale del suo Paese, immergendo la sua storia in una atipica, quanto atemporale ambientazione. C’è infatti una efficace commistione di retrò e moderno, di ambienti minimalisti e a volte asettici, claustrofobiche e scultoree prospettive architettoniche. Nessun riferimento preciso, nessun appiglio sicuro, solo tanta naturale e devastante devianza. In salotto la televisione è sempre accesa e spesso ci si sofferma sui documentari di animali, soprattutto dei primati, i cui versi sovrastano o accompagnano gli sguardi persi dei personaggi, la lobotomica incongruenza del quotidiano. Se la patria non esiste più o è in mano almeno concettualmente al pensiero unico e totalitario, Avranas prova quindi a scardinare l’altro sacro valore: la famiglia, anzitutto, produttrice indefessa di psicopatologie varie, anche criminali. Non è cinema fulminante, che manda gambe all’aria moralismi e cliché, ma sicuramente è cinema implacabile, che ci lascia mestamente ancora osservatori innocui, fuori la porta che nel finale si chiude come la corazza di un animale mimetizzante.  

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