VENEZIA 71 – Asha Jaoar Majhe (Labour of Love), di Adityavikram Sengupta (Giornate degli Autori)

Sembra costruito sul nulla, ma è forse proprio questo nulla a fare di Labour of Love una piccola scoperta difficilmente descrivibile a parole. Uno sguardo che illumina ogni manifestazione del quotidiano perché condotto da occhi di innamorati, che rinascono nuovi ad ogni battito di palpebra.

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labour of loveUna sospensione leggera, i cui contorni sfiorano senza toccare. L’esordio alla regia di Adityavikram Sengupta vive di un rigore rarefatto. Due sposi sono costretti a orari di lavoro opposti, e vivono il loro amore senza incontrarsi.

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Senza ricorrere alla parola, la macchina da presa segue placida i gesti quotidiani dei due personaggi. Non c’è l’intento di romanticizzare la banalità del quotidiano, ma la mano del regista sembra essere naturalmente lirica nel concentrarsi, sempre alla giusta distanza, sui corpi degli attori. I due amanti non mostrano turbamento di fronte alla loro separazione, ma anzi abbracciano la reciproca assenza lasciando tracce di sé nel piccolo appartamento abitato sempre per metà. Impronte bagnate sul pavimento che evaporano in pochi secondi, il viso illuminato dal riflesso dorato del riso nel piatto, le dita sporche di sangue di pesce o la schiena di un gatto vista dalla finestra. All’esterno, in un eterno fuoricampo, le proteste degli operai rimasti senza lavoro invadono le strade di Calcutta in un disperato canto contro la recessione che piega le fasce di popolazione più povere. L’occhio liquido di Sengupta si scioglie lentamente e scivola dagli attori all’ambiente che li circonda, passando dalle crepe dei muri ai binari del tram, correndo sui cavi elettrici e perdendosi fra solitari greggi di capre che pascolano alla luce della luna sui marciapiedi. Della celebre città bengalese viviamo solo squarci aperti dai vicoli fumosi, dai vetri sporchi di un tram, dalle sbavature dei lampioni viste da una bicicletta in corsa, dettagli che respirano più di ogni totale. L’amore taciuto dai due sposi sgorga dalle loro dita, che non riescono a intrecciarsi, per invadere ogni inquadratura, dove le parole non sono necessarie. E se il cinema non è mai stato veramente muto, neanche Labour of Love vive di afasia, ma è bensì costruito su un’eterna sinfonia urbana che entra dalle finestre, dalle radio lasciate accese o dal vociare incomprensibile dei vicini, così come si fanno composizione sonora i rumori assordanti della fabbrica, il ciclico fendere l’aria dei ventilatori o lo sbattere di una manciata di lenticchie contro un barattolo di vetro.

Sembra costruito sul nulla, ma è forse proprio questo nulla a fare di Labour of Love una piccola scoperta difficilmente descrivibile a parole. Uno sguardo che illumina ogni manifestazione del quotidiano perché condotto da occhi di innamorati, che rinascono nuovi ad ogni battito di palpebra.

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